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CAV - Centro di Accoglienza alla Vita Vogherese ODV

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email: cavvoghera@virgilio.it

di Roberto Ponti
da www.famigliacristiana.it
@Riproduzione Riservata del 10 aprile 2021

Due genitori hanno chiesto ai figli in Dad di disegnare le loro emozioni. E sono andati oltre. Invitano a riproporre questa iniziativa davanti alle scuole per sensibilizzare e protestare. Col fine di chiedere una migliore organizzazione il prossimo anno e la pianificazione dei centri estivi. A Gallarate i disegni verranno appesi sui cancelli delle primarie sabato 13 marzo.-


È la preoccupazione di Stefano Scotti, ingegnere prestato alla cooperazione internazionale, e di sua moglie Federica Pozzi, medico, impegnati in questi giorno a gestire la DAD per i loro figli, situazione condivisa con i genitori della Scuola Primaria G. Marconi di Crenna (Gallarate – Varese) che li ha portati a lanciare un'iniziativa di protesta contro la delibera della Regione Lombardia e la chiusura delle scuole di ogni ordine e grado, lasciando aperte invece numerose altre attività aggregative, per rispondere all’impennata dei contagi da Covid-19.

«Abbiamo chiesto ai nostri figli – che sono di nuovo oggetto, senza possibilità di replica, di un provvedimento che li priva del contatto con i compagni e gli insegnanti – di rappresentare, con disegni e scritte, i loro sentimenti». Le loro opere mostrano tutto lo sconforto e lo scoramento di una generazione a cui si sta negando un’esperienza formativa, dal punto di vista culturale e umano, fondamentale.
L'invito è di riproporre questa iniziativa svolta nelle proprie case, davanti alle scuole, in particolare le scuole primarie e dell’infanzia. A Gallarate i disegni verranno appesi sui cancelli della scuola sabato 13 marzo; genitori e bambini saranno presenti davanti alla scuola, presidiandola simbolicamente a turno (per evitare assembramenti).
«Noi tutti avevamo condiviso il ricorso alla didattica a distanza un anno fa, quando, travolti dalla pandemia, non si poteva fare altro che proclamare il lockdown di ogni attività. Gli insegnanti stessi hanno fatto i salti mortali per restare in contatto con gli alunni e tenere delle lezioni quanto più vicine alla “normalità”. I genitori si sono fatti in quattro per accompagnare i figli nella DAD, procurandosi gli strumenti informatici e cercando di ritagliare per loro spazi fisici in casa e momenti appropriati. Non è stato facile, perché i genitori sono lavoratori, impegnati a loro volta a trovare un difficile equilibrio tra vita e impegni lavorativi nel remote working (che di smart ha avuto e ha ben poco...) improvvisato dalle aziende».
La ripresa di settembre era stato il frutto di uno sforzo per assicurare una didattica in presenza che rispettasse le misure di sicurezza. E i bambini si sono dimostrati ovunque straordinari nel rispetto delle regole (mascherine sempre indossate, distanze rispettate, nessun passaggio di materiale), consapevoli che dai loro comportamenti dipendeva l’obiettivo di evitare un ritorno alla situazione dell’anno scolastico scorso. Gli insegnanti sono stati chiamati ad applicare le norme di sicurezze e a garantire una didattica di qualità.
«Consideriamo sbagliato e ingiusto che sia la scuola, dunque i bambini, le loro famiglie e gli insegnanti, a pagare il prezzo – sottolineano i genitori – di comportamenti sconsiderati e irrispettosi delle regole che sono avvenuti al di fuori della scuola. Perché a pagare il prezzo di questi comportamenti devono essere i bambini? Perché la scuola viene considerata un dettaglio, sacrificabile sull’altare delle scelte politiche? Perché la formazione non viene messa in cima alla lista delle attività da tutelare? Il nostro appello e il nostro gesto simbolico non sono certo contro la scuola... Chiudere le scuole dovrebbe essere la misura estrema, ultima, in risposta alla pandemia, a maggior ragione dopo un anno che avrebbe dovuto essere utilizzato dalle autorità amministrative e dai decisori politici per prendere misure che mettessero la formazione in sicurezza in cima alla lista delle priorità».

La protesta ha una finalità propositiva: i genitori chiedono di pianificare la prossima estate, organizzando con largo anticipo i centri per i bambini, e, soprattutto, di non farsi cogliere nuovamente impreparati il prossimo autunno, alla ripresa dell’anno scolastico. La scuola è una priorità, e solo la didattica in presenza garantisce una formazione completa e non discriminatoria ai bambini. La scuola è spazio educativo, di resilienza e di crescita insostituibile.

di Assuntina Morresi  Nessuno resti solo con la malattia
da www.avvenire.it
@Riproduzione Riservata del  18 febbraio 2021
Nel suo sesto documento dedicato alle problematiche emerse con Covid 19, il Comitato nazionale per la Bioetica ha riflettuto su 'La solitudine dei malati nelle strutture sanitarie in tempi di pandemia', proponendo una mozione in merito: nella consapevolezza delle difficoltà che il Servizio sanitario sta attraversando, si chiede che venga fatto ogni sforzo possibile perché accanto alle persone ricoverate negli ospedali si possa «assicurare la presenza di almeno un familiare, o di una persona di fiducia, in particolare nelle situazioni più gravi, nelle fasi terminali e per i pazienti in condizioni di particolari fragilità». Quello della solitudine dei malati, specie dei morenti, è un dramma che si sta consumando da quasi un anno ormai, in particolare nei reparti Covid-19, ma non solo.
L’organizzazione dei nostri ospedali è stata travolta dal contagio. È stato fatto di tutto per cercare di renderli il più sicuri possibile sia per chi vi lavora che per la popolazione, ricoverati e no, per evitare la diffusione del virus: un isolamento severo dei reparti riservati agli infetti è stato ovviamente il primo requisito. Gli operatori sanitari in primis, ma anche ausiliari, volontari e cappellani hanno rischiato la vita, e molti l’hanno persa, per poter prendersi cura di tutti noi. Per farlo hanno quasi dovuto acquisire le fattezze di un esercito alieno: abbiamo tutti ben presente le immagini di medici e infermieri avvolti nei tutoni bianchi, dalla testa ai piedi, indistinguibili se non per i nomi scritti in grande, spesso a mano. Condizioni che rendono ancora più pesante la solitudine dei malati, la quale diventa drammatica quando di compagnia ce ne sarebbe più bisogno: per i più anziani, completamente disorientati dall’interrompersi della ritualità quotidiana e senza più facce riconoscibili intorno; se la malattia si aggrava, e senza il conforto di un affetto vicino diventa facile lasciarsi andare; quando si muore.
La solitudine nel morire ha il sapore della disperazione, per chi se ne va e per chi resta. In migliaia hanno visto i propri cari, malati di Covid, uscire da casa per non tornare mai più, spesso senza rivederne neppure il corpo, come nei dispersi in guerra. E se, come diceva Karen Blixen «tutti i dolori sono sopportabili se li si fa entrare in una storia, o se si può raccontare una storia su di essi», quali storie è possibile raccontare di chi è morto da solo, letteralmente scomparso ai nostri occhi negli ultimi giorni della sua vita? In tanti addirittura senza neppure il funerale?
Il Comitato ha voluto guardare tutto questo. Il tentativo di mitigare il contagio richiede misure rigorose di sicurezza sanitaria, alle quali non si possono concedere deroghe. Ma la vicinanza fisica di una persona cara al letto di un malato, specie se più fragile, più grave, e se morente, non deve essere considerata una eccezione ai protocolli di cura e sicurezza, al contrario: ne deve far parte integrante, così come lo è l’accudimento insieme alle terapie o alle cure palliative.
Il Comitato ha voluto sottolineare questo aspetto: la presa in carico di un malato non può limitarsi al suo organismo ma deve coinvolgere la persona intera, in tutti i suoi bisogni ed esigenze. E infatti nella mozione si è data attenzione al consenso informato del paziente, suggerendo che possa indicare una persona di fiducia per stargli accanto ma anche per tenere conto di chi non vuole visite, magari per paura di contagiare i propri cari, così come per offrire l’assistenza spirituale a chi la chiede. Va cioè messa in atto una sanità che concretamente abbia al centro la persona malata che vi si affida.
Quindi nessuna deroga alle misure di sicurezza ma un invito a uno sforzo organizzativo per prendersi cura in toto, con una particolare attenzione agli investimenti futuri: le risorse che stiamo aspettando per nostro il Servizio sanitario vanno utilizzate tenendo conto delle innovazioni tecnologiche e al tempo stesso della necessità di rispondere flessibilmente a tutti i bisogni delle persone malate. Una raccomandazione, quella del Comitato, a «perseverare nella ricerca di soluzioni innovative per garantire la sicurezza senza perdere la dimensione relazionale, di vicinanza e prossimità».

SALICE TERME – Alla Fondazione Don Gnocchi c’è ancora posto per chi vuole fare il Servizio civile. La fondazione offre ai ragazzi e ragazze dai 18 ai 29 anni l’opportunità di svolgere un anno di servizio civile accanto a persone anziane nel proprio Centro “S. Maria alle Fonti” di Salice Terme.

“Si tratta di una straordinaria esperienza di crescita personale e professionale al servizio di persone fragili, già utilizzata in questi ultimi anni da numerosi giovani, con riscontri positivi da parte dei ragazzi coinvolti”, spiega la Fondazione.

Il progetto “Condividere il cammino per ricordare il passato, vivere il presente e progettare il futuro”, approvato e finanziato dal Dipartimento per le politiche giovanili e il Servizio Civile Nazionale, ha l’obiettivo di migliorare il benessere delle persone anziane ospiti delle Residenze Sanitarie Assistenziali o dei Centri Diurni Integrati, incrementando le opportunità di partecipazione, di inclusione e relazione, attraverso la realizzazione di attività ludiche e ricreative.

L’impegno si articolerà in 25 ore settimanali, con un compenso di 439,50 euro mensili e un pasto gratuito al giorno. Le domande vanno presentate tramite SPID esclusivamente sulla piattaforma

Domanda on Line (DOL) all’indirizzo domandaonline.serviziocivile.it entro le ore 14 del 15 febbraio 2021.

Per maggiori informazioni e per ricevere supporto nella presentazione della domanda è possibile rivolgersi al Servizio Volontariato e Servizio Civile della Fondazione Don Gnocchi ai numeri 02 38264696 – 02 76456803 o all’indirizzo mail serviziocivile@dongnocchi.it.

da www.vogheranews.it

@Riproduzione Riservata del 25 novembre 2020

OLTREPO

Inizia sabato 28 novembre (per concludersi l’8 dicembre) la 24esima giornata nazionale della Colletta alimentare, organizzata dalla fondazione Banco alimentare, rappresentata sul nostro territorio dal Banco alimentare di Novi Ligure.

Si tratta di un ente che rifornisce, nel nostro territorio, di generi alimentari durante tutto l’anno a Croce Rossa, Caritas diocesana e gruppi caritativi parrocchiali (l’80% dei generi alimentari distribuiti arriva da loro perchè gestisce gli aiuti europei Fead, le eccedenze alimentari industriali ecc…).

Negli anni passati tra Voghera, Casteggio e Rivanazzano erano coinvolti un centinaio di volontari: quest’anno, a livello nazionale, si è deciso di non ricorrere ai volontari, per ragioni di sicurezza. Si è optato quindi per la vendita di cards, già disponibili nei punti vendita, acquistabili presso le casse, che verranno poi convertite dal supermercato in cibo che verrà spedito a Novi e da lì tornerà per essere messo a disposizione.

Quest’anno i punti vendita che hanno aderito al progetto sono: Galassia Casei Gerola, Esselunga, Lidl, Eurospin, Penny market, Carrefour, Unes, Basko a Casei, Varzi, Voghera, Casteggio e Stradella.

di Benedetta Verrini
da www.famigliacristiana.it
@Riproduzione Riservata del 20 novembre 2020

L’attuale situazione di scuole e asili chiusi, lezioni da remoto, assenza di spazi gioco ha fatto drasticamente cambiare le cautele dei genitori nei confronti dell’esposizione agli schermi e ha “uniformato” il tasso di consumo di ore online da parte dei bambini e ragazzi. La riflessione del pedagogista Pier Cesare Rivoltella.- 


Esiste ancora uno “scrupolo educativo” rispetto al consumo digitale dei bambini? Se lo stanno chiedendo in molti esperti, a livello internazionale, in questo tempo di pandemia: i lockdown, le regole di distanziamento, il confinamento nelle case, la didattica a distanza hanno prodotto come risultato che anche le famiglie più restie all’uso di tecnologia nell’educazione dei figli si sono trovate a “fare i conti” con gli schermi.
Uno studio sulla pandemia condotto da un gruppo di ricercatori del Boston College e dell’Università del Maryland ha mostrato anzi che se, in passato, l’abuso degli schermi poteva essere collegato a condizioni di povertà socio-economica tra le famiglie, l’attuale situazione di scuole e asili chiusi, lezioni da remoto, assenza di spazi gioco ha fatto drasticamente cambiare le cautele dei genitori nei confronti dell’esposizione agli schermi e ha “uniformato” il tasso di consumo di ore online da parte dei bambini e ragazzi.
E in Italia? Il Cisf aveva dedicato il Rapporto 2017 al tema delle Relazioni familiari nell’era delle reti digitali in cui era emerso il modello di “famiglia ibridata”, in cui le relazioni e le stesse responsabilità educative, compresi gli aspetti normativi e affettivi, si svolgevano in parte di persona e in parte a distanza, attraverso le reti digitali.
Anche nell’ultimo Rapporto Cisf (2020), dedicato alla famiglia nella società post-familiare, Pier Cesare Rivoltella rilancia il tema dell’educazione nella società iperconnessa: si parla dello smartphone come di un “guinzaglio molto lungo”. "La “lunghezza” del guinzaglio celava le opposte rappresentazioni di madri e figli, seppur nella loro complementarietà”, scrive Rivoltella, facendo riferimento a una ricerca realizzata nel 2008. “Era “lungo” per le madri, il guinzaglio, perché nella loro percezione grazie ad esso diveniva possibile controllare il figlio e sapere sempre dove si trovasse (anche se questa percezione non corrispondeva ad un’esperienza di reale controllo, quanto piuttosto ad un vissuto di riduzione dell’ansia); il guinzaglio era “lungo” anche per i figli, perché grazie ad esso potevano muoversi con maggior libertà proprio in virtù della reperibilità da esso garantita. Strumento di supporto alla gestione della funzione genitoriale e terreno di negoziazione affettiva, per le madri oggi il digitale sembra essere una sorta di protesi della loro competenza genitoriale”.
Una situazione che si propone anche nelle famiglie separate: “i genitori divorziati ricorrono con frequenza alla tecnologia per comunicare sia con i figli che con l’altro genitore”, prosegue Rivoltella nel suo contributo al Rapporto Cisf 2020. I dati di ricerca fanno riferimento a un 58% che ricorre a Skype e a videochiamate, l’84% condivide fotografie, il 62% file video. “Si tratta di una prima funzione dei media digitali come ponti e tessuti che possono aiutare a tenere insieme i lembi della famiglia estesa. Questa presenza dei media digitali nella vita della famiglia scomposta può produrre effetti completamente diversi sulla qualità della relazione, soprattutto tra gli ex-coniugi, rendendola migliore o peggiore”.
La “fotografia” di questa situazione si aggiorna con la crisi della pandemia: “Il lockdown e la limitazione stringente ai movimenti delle persone ha sicuramente prodotto nelle famiglie delle temporanee modificazioni dei loro comportamenti e delle routines che scandiscono la vita familiare. Queste modificazioni hanno significativamente a che fare con la disponibilità dei media digitali, più in generale della tecnologia”, ha scritto Rivoltella. “Un primo elemento si deve registrare in relazione allo smart working e al distance schooling”, sottolinea, evidenziando la complessità del confinamento a casa: “Si tratta di una situazione che ha costretto la famiglia a un supplemento di negoziazione per l’utilizzo degli strumenti (non tutte le famiglie dispongono di tecnologia personale per tutti i membri) e per l’uso della connessione (la necessità di utilizzare contemporaneamente connessione per diverse videoconferenze spesso non consente alla banda domestica di “tenere”). Al di là del fatto che questa negoziazione abbia prodotto conflittualità o convivialità, di certo la necessità di discutere ha offerto alle famiglie una nuova occasione di entrare in relazione”.

di M. Michela Nicolais

da www.ilpopolotortona.it

@Riproduzione Riservata del o8 ottobre 2020

Fratelli tutti, l’enciclica di Papa Francesco firmata sabato 3 ottobre ad Assisi: ecco la via per «sognare e pensare a un’altra umanità» partendo sempre dagli ultimi.-

«È possibile desiderare un pianeta che assicuri terra, casa e lavoro a tutti. Questa è la vera via della pace, e non la strategia stolta e miope di seminare timore e diffidenza nei confronti di minacce esterne». A garantirlo è il Papa, che nella sua terza enciclica, Fratelli tutti – firmata sabato 3 ottobre ad Assisi – parla di «amicizia sociale» come via per «sognare e pensare a un’altra umanità», seguendo la logica della solidarietà e della sussidiarietà per superare l’«inequità» planetaria già denunciata nella Laudato si’.

«Se si tratta di ricominciare, sarà sempre a partire dagli ultimi», la ricetta per il mondo post Covid. La terapia è la fratellanza, il testo di riferimento è il documento di Abu Dhabi e il modello è quello del Buon Samaritano, che prende su di sé «il dolore dei fallimenti, invece di fomentare odi e risentimenti».

Il Coronavirus, che ha fatto irruzione in maniera improvvisa nelle nostre vite, «ha messo in luce le nostre false sicurezze «e la nostra «incapacità di vivere insieme», denuncia Francesco sulla scorta del suo magistero durante la pandemia: «Che non sia stato l’ennesimo grave evento storico da cui non siamo stati capaci di imparare», «che non ci dimentichiamo degli anziani morti per mancanza di respiratori. Che un così grande dolore non sia inutile. Che facciamo un salto verso un nuovo modo di vivere e scopriamo una volta per tutte che abbiamo bisogno e siamo debitori gli uni degli altri».

«Siamo più soli che mai», la constatazione di partenza.

Il razzismo che «si nasconde e riappare sempre di nuovo»; l’«ossessione di ridurre i costi del lavoro, senza rendersi conto delle gravi conseguenze che ciò provoca», prima fra tutti l’aumentare della povertà.

Sono alcuni effetti della «cultura dello scarto», stigmatizzata ancora una volta dal Papa. Vittime, in particolare, le donne, che con crimini come la tratta – insieme ai bambini – vengono «private della libertà e costrette a vivere in condizioni assimilabili a quelle della schiavitù».

«La connessione digitale non basta per gettare ponti, non è in grado di unire l’umanità» il rimprovero al mondo della comunicazione in rete, dove pullulano «forme insolite di aggressività, di insulti, maltrattamenti, offese, sferzate verbali fino a demolire la figura dell’altro».

I circuiti chiusi delle piattaforme, in cui ci si incontra solo tra simili con la logica dei like, «facilitano la diffusione di informazioni e notizie false, fomentando pregiudizi e odio».

Arrivare ad «una governance globale per le migrazioni».

È l’auspicio del quarto capitolo, dedicato interamente alla questione dei migranti, da «accogliere, promuovere, proteggere e integrare», ribadisce Francesco. «Piena cittadinanza e rinuncia all’uso discriminatorio del termine minoranze», l’indicazione per chi è arrivato già da tempo e inserito nel tessuto sociale. «La vera qualità dei diversi Paesi del mondo si misura da questa capacità di pensare non solo come Paese, ma anche come famiglia umana, e questo si dimostra specialmente nei periodi critici», sottolinea Francesco: no ai «nazionalismi chiusi», l’immigrato non è «un usurpatore».

Una cosa è essere a fianco del proprio «popolo» per interpretarne il «sentire», un’altra cosa è il «populismo».

Nel quinto capitolo, dedicato alla politica, il Papa stigmatizza l’«insano populismo» che consiste «nell’abilità di qualcuno di attrarre consenso allo scopo di strumentalizzare politicamente la cultura del popolo, sotto qualunque segno ideologico, al servizio del proprio progetto personale e della propria permanenza al potere». No, allora, al «populismo irresponsabile», ma anche all’accusa di populismo «verso tutti coloro che difendono i diritti dei più deboli della società».

«La politica è più nobile dell’apparire, del marketing, di varie forme di maquillage mediatico», ammonisce Francesco tracciando l’identikit del «buon politico», le cui «maggiori preoccupazioni non dovrebbero essere quelle causate da una caduta nelle inchieste»: «E quando una determinata politica semina l’odio e la paura verso altre nazioni in nome del bene del proprio Paese, bisogna preoccuparsi, reagire in tempo e correggere immediatamente la rotta».

«Il mercato da solo non risolve tutto», mette in guardia Francesco, che chiede di ascoltare i movimenti popolari e auspica una riforma dell’Onu, per evitare che sia delegittimato.

«Occorre esercitarsi a smascherare le varie modalità di manipolazione, deformazione e occultamento della verità negli ambiti pubblici e privati». Ne è convinto il Papa, che puntualizza: «Ciò che chiamiamo “verità” non è solo la comunicazione di fatti operata dal giornalismo», e nemmeno semplice «consenso tra i vari popoli, ugualmente manipolabile».

Oggi, ad un «individualismo indifferente e spietato» e al «relativismo» – la tesi di Francesco – «si somma il rischio che il potente o il più abile riesca a imporre una presunta verità». Invece, «di fronte alle norme morali che proibiscono il male intrinseco non ci sono privilegi né eccezioni per nessuno. Essere il padrone del mondo o l’ultimo miserabile sulla faccia della terra non fa alcuna differenza: davanti alle esigenze morali siamo tutti assolutamente uguali».

«La Shoah non va dimenticata». «Mai più la guerra», mai più bombardamenti a Hiroshima e Nagasaki, «no» alla pena di morte. Bergoglio lo ripete, nella parte finale dell’enciclica, in cui si sofferma sull’importanza della memoria e la necessità del perdono. Cita una canzone di Vinicius de Moraes, per riaffermare la sua concezione della società come «poliedro» ed esortare alla gentilezza: «La vita è l’arte dell’incontro, anche se tanti scontri ci sono nella vita».

Come San Francesco, ciascuno di noi deve riscoprire la capacità e la bellezza di chiamarsi «fratello» e «sorella». Perché nessuno si salva da solo: «Siamo sulla stessa barca» come ha detto il 266° successore di Pietro il 27 marzo scorso, in una piazza San Pietro deserta e bagnata dalla pioggia.

di Lorenzo Montanaro 
da www.famigliacristiana.it
@Riproduzione Riservata del 16 settembre 2020

Protagonisti delle lezioni in una classe inusuale (con un ambone al posto della cattedra e pregevoli testimonianze d’arte sacra invece delle cartine geografiche alle pareti) sono 23 studenti all’ultimo anno del Liceo Scientifico, che frequentano la sede torinese del Convitto Nazionale Umberto I. Parla don Fredo Olivero, un sacerdote da sempre attento alle esigenze del territorio.-


I banchi di una chiesa diventano banchi di scuola. E’ quanto accade a Torino, in tempo di pandemia. Nell’antica navata, dove di domenica siedono i fedeli, da lunedì a venerdì prendono posto i ragazzi per le lezioni. In aula, i famigerati banchi monoposto ministeriali tardano ad arrivare. Così, per consentire di iniziare senza problemi l’anno scolastico, don Fredo Olivero (sacerdote da sempre impegnato a fianco degli ultimi) apre agli studenti le porte della chiesa di San Rocco, un gioiello culturale e spirituale nel cuore della città. Si tratta, ovviamente, di una sistemazione temporanea (destinata, nelle intenzioni di chi l’ha immaginata, a durare non più di una settimana), però ha qualcosa da dire tanto al mondo della scuola, quanto alla comunità ecclesiale.
Protagonisti delle lezioni in una classe inusuale (con un ambone al posto della cattedra e pregevoli testimonianze d’arte sacra invece delle cartine geografiche alle pareti) sono 23 studenti all’ultimo anno del Liceo Scientifico, che frequentano la sede torinese del Convitto Nazionale Umberto I. Una scuola particolare, molto aperta alla dimensione internazionale, tanto che alcuni degli iscritti hanno, nel loro piano di studi, anche un corso di cinese.
A pochi giorni dalla ripresa della scuola, il Convitto Umberto I (come migliaia di altri istituti italiani) si trova alle prese con le nuove e complesse disposizioni anti-Covid. Le attrezzature promesse dal Ministero non sono ancora arrivate e, per ovviare in tempi rapidi al problema, la dirigente scolastica, la prof. Giulia Guglielmini, pensa di chiedere aiuto al sacerdote. Da notare che la chiesa (non una parrocchia, ma una comunità con caratteristiche molto particolari) e l’istituto sono vicini. Già in passato avevano collaborato per alcuni progetti legati alla valorizzazione dei beni artistici. Immediatamente don Fredo si mette a disposizione. E il primo giorno di scuola, per la 5 H del liceo, la giornata non inizia con il suono della campanella, ma con l’apertura dell’antico portale in legno.
La comunità di San Rocco è nota per essere una realtà molto accogliente. Già punto di riferimento per i cristiani africani, la piccola chiesa nel cuore del centro storico ospita anche un’intensa attività culturale: concerti e mostre d’arte sacra. La parentesi scolastica non è che un ulteriore tassello, nato da necessità pratiche, ma capace di dischiudere incontri inattesi. «E’ bello parlare con questi ragazzi» racconta don Fredo. «Sono giustamente affezionati alla tradizione laica del loro istituto, però sanno anche guardare con attenzione e con profondità allo spazio che in questi giorni li ospita».
Uno spazio denso di storia. «Ho raccontato loro che, a pochi passi da qui, nel ‘400 è nata l’Università di Torino (la stessa dove, nel 1506, Erasmo da Rotterdam ha conseguito la laurea in teologia, ndr). Ho raccontato di quando, nel corso dei secoli, durante epidemie e pestilenze, in questo luogo venivano sepolti i corpi delle persone che non avevano parenti: un segno di umanità del quale dobbiamo farci eredi. Qualunque sia il domani di questi ragazzi, spero che qui possano respirare un clima di accoglienza e di comunità».
A Torino, la chiesa di san Rocco non è la sola istituzione ecclesiastica attenta alle necessità della scuola in tempo di pandemia. Pochi giorni fa è stato firmato un protocollo d’intesa tra Diocesi e Comune. Su iniziativa dell’arcivescovo Cesare Nosiglia, parrocchie e istituti religiosi sono stati invitati a mettere a disposizione i loro ambienti per le lezioni scolastiche, in orari che non contrastano con l’attività pastorale. Alcune realtà si sono già rese disponibili e al momento sono in corso le verifiche tecniche. Magari non ricapiterà di assistere a una lezione di letteratura italiana sui banchi di una chiesa. Ma in un’aula di catechismo molto probabilmente sì.

da www.framigliacristiana.it
@Riproduzione Riservata del 21 agosto 2020

Presente all'incontro della kermesse riminese il presidente nazionale del Forum delle Famiglie ha accolto con soddisfazione le parole del ministro dell'Economia e delle Finanze Roberto Gualtieri che ha detto: «L'assegno unico per figlio ci sarà perché riteniamo che sostenere la genitorialità e la natalità è realizzare una grande riforma strutturale non solo per la crescita ma anche per la coesione di questo Paese».-

La ripartenza della vita economica italiana è un’impresa ardua che risente delle tracce della crisi economica iniziata nel 2008 e che deve tenere conto di un debito pubblico già elevatissimo prima della pandemia. L’economia che stiamo ricostruendo è veramente al servizio delle famiglie e delle future generazioni? Di questo si è parlato alla presenza, tra gli altri, del Ministro dell’Economia e delle Finanze, Roberto Gualtieri Roberto Gualtieri, Ministro dell’Economia e delle Finanze oggi al Meeting di Rimini in un incontro dal titolo Verso un'economia sostenibile. La sfida della ripartenza.

Guardando alla Fase 2 del Governo, quella che segue alla prima che aveva al centro la coesione sociale e l'intervento sulle urgenze immediate di cittadini e imprese, quella in cui si investirà sui soggetti il ministro ha affermato: «Abbiamo tantissimi progetti: ne presenteremo alcuni che sciolgano i nodi strutturali che hanno fato sì che questo Paese crescesse troppo poco da tutti i punti di vista. Per concentrare in un numero limitato, ma molto incisivo queste risorse e cogliere questa opportunità unica per costruire una prospettiva di cambiamento».

Provocato sull'intervento di Mario Draghi al Meeting e sulla sua ricetta del “fare insieme e attenzione a giovani ed educazione” ha commentato: «Sono al 100per cento d'accordo con Draghi; dobbiamo usare queste risorse, questo debito comune, per fare progetti che abbiano un impatto strutturale. Abbiamo già raccolto 534 progetti e ci apprestiamo a raccoglierne altri, ma noi realizzeremo progetti che incidano solo sui grandi nodi/assi strutturali affrontare i quali è la condizione per cambiare il Paese e renderlo più innovativo sostenibile e coeso. Ecco perché giovani, ricerca, educazione e formazione di chi lavora e studia sono temi decisivi. Così come favorire la crescita dimensionale e l'innovazione delle imprese, ridurre le emissioni per azzerarle nel 2050; ricucire il Paese con una rete di infrastrutture materiali e immateriali innovative e sostenibili, portare il livello degli investimenti pubblici e privati sopra al livello troppo basso che abbiamo tradizionalmente e creare buona e piena occupazione nel Paese».

«Entriamo nella fase 2» ha proseguito il Ministro; «E ci sarà anche una componente di riforme: quella fiscale è decisiva e si farà; ci sarà l'assegno unico perché riteniamo che sostenere la genitorialità e la natalità è realizzare una grande riforma strutturale non solo per la crescita ma anche per la coesione di questo Paese. Una riforma che si deve autofinanziare con la debonusizzazione del nostro sistema fiscale e un rafforzamento del contrasto dell'evasione fiscale».

Gigi De Palo, Presidente Forum Nazionale delle Associazioni Familiari, ha accolto con soddisfazione le parole del Ministro Gualtieri. «Siamo contenti che il ministro dell’Economia abbia parlato di assegno unico-universale per ogni figlio e di riforma fiscale: sono temi sui quali, come giustamente ha ricordato Gualtieri, il Forum delle associazioni familiari si è speso e continua a spendersi da anni a livello nazionale, regionale ed europeo. È tempo che tutta la politica comprenda che il bene comune non è mai la somma degli interessi particolari. Per questo, dopo l’ok unitario alla Camera, chiediamo che ora l’iter di approvazione della legge delega per l’assegno unico-universale vada veloce al Senato».

«In questa pandemia» ha proseguito De Palo «senza la capacità delle famiglie di fare da ammortizzatore sociale silenzioso, spesso peraltro neppure abbastanza considerato, senza la loro innata capacità di assorbire e trasformare le insufficienze della macchina pubblica, il Paese non avrebbe retto. Abbiamo visto come, in 20 giorni, sia crollato il turismo. Di fronte alle emergenze sanitarie, economiche e sociali che sono state scatenate dal virus, l’Italia ha davvero rischiato l’implosione. Ecco perché servono riforme strutturali come l’assegno unico-universale per ogni figlio, che auspichiamo sia la priorità di Governo e Parlamento».
De Palo quindi ha citato i circa 100 miliardi di euro di debito, sottolineando che «li stiamo accollando sulle spalle delle future generazioni», evidenziando come si tratti di risorse che «stiamo sottraendo a loro, al loro futuro, ai loro studi, alle loro passioni. Abbiamo chiesto loro di salvarci e loro neppure lo sanno, ma lo stanno facendo. Le famiglie, insieme al personale sanitario, sono i veri eroi di questo tempo. Ecco perché ora non è possibile non riuscire a trovare, tra i 209 miliardi di euro del Recovery Fund, i 7-8 miliardi di euro che servono a trasformare in realtà l’assegno unico. L’alternativa sarebbe quella di inserire questo investimento sul presente e il futuro del Paese in Legge di Bilancio. Non c’è una terza opzione».
La riflessione che De Palo ha consegnato ai partecipanti e al panel, ha toccato anche il tema dei parametri europei: «L’unico modo che abbiamo per risolvere il problema del debito pubblico, del deficit e dell’inflazione è investire su famiglia, natalità e demografia, perché altrimenti collasseranno tutti i parametri di Maastricht. Senza figli aumenterà il debito pubblico, se non altro perché ci saranno più anziani, meno popolazione attiva e saranno più costosi gli oneri contributivi e fiscali».
Le conclusioni dell’intervento del presidente nazionale del Forum Famiglie sono sull’importanza di costruire «puntando tutto su ciò che produce ricchezza e restituisce al Paese quanto investito moltiplicato a livello esponenziale: nessuna realtà più delle famiglie è capace di produrre tali effetti di bene comune per il Paese».

di Maria Elena Bonetti,  Ministra per le Pari opportunità e la Famiglia

da www.avvenire.it

@Riproduzioone Riservata del 02 giugno 2020

Solo un vero protagonismo delle famiglie incoraggiato dallo Stato può liberare tutte le energie sociali necessarie a far cogliere l’occasione di un profondo cambiamento.-

Un modello «comunitario» per l'Italia che va oltre il Covid

Gentile direttore,

ci troviamo a festeggiare l’anniversario della nascita della nostra Repubblica in un tempo di sconvolgimento del vivere sociale, umano ed economico. Il Paese ha dovuto fare scelte drammatiche che avevano avuto precedenti tanto gravi solo prima di quel 2 giugno del 1946. In qualche modo, il tempo che ci apprestiamo a vivere ha la stessa connotazione di responsabilità e insieme di coraggio e speranza che allora il nostro Paese ha saputo incarnare. È opinione diffusa che la crisi radicale che abbiamo vissuto possa dare origine a un nuovo slancio. Ma è altrettanto chiara la consapevolezza che questo accadrà solo se sapremo mettere in campo strumenti nuovi, come nuova è la sfida che ci attende.

Si tratta di facilitare scelte di investimento personale e comunitario che ci proiettino nel futuro con una fiducia rinnovata. Sono scelte che riguardano i percorsi di formazione dei giovani, di innovazione nell’ambito lavorativo e imprenditoriale, ma anche scelte familiari. Lo scenario, che già prima del diffondersi dell’epidemia avevamo davanti, è un crollo demografico che rischia di aggravarsi irrimediabilmente se non diamo concretezza a riforme oggi ancora più necessarie. Il coronavirus ci ha obbligato alla consapevolezza, dimostrando che solo una società integrata può essere all’altezza delle sfide del nostro tempo: non può più funzionare un modello sociale in cui economia, ambiente, salute pubblica, educazione, innovazione, ricerca, solidarietà, relazioni umane siano considerati ambiti distinti e trattati come tali. Il modello che si delinea davanti ai nostri occhi è al contrario un sistema unitario, in cui ciascuno di questi elementi concorre, in piena armonia con gli altri, a uno sviluppo integrale. Così come ne esce sconfitta l’immagine dell’uomo come individuo solo, diviso in categorie in base al ruolo sociale o al lavoro che svolge. La visione di società che abbiamo sperimentato in questi mesi è fondata su connessioni profonde tra il vivere personale e quello comunitario, un modello sociale in cui il lavoro e le responsabilità familiari si uniscono nella quotidianità di ciascuno, nel concreto vivente della persona.

Una società resiliente è una società che si fonda su relazioni strutturali solide e al tempo stesso dinamiche. Nel nostro Paese le famiglie hanno dimostrato di poter contribuire da protagoniste e maestre a questa struttura. D’altra parte, è questa l’idea stessa che nasce dal pensiero dei padri costituenti, come Aldo Moro aveva rimarcato parlando della necessità di dare corpo a legami e relazioni sociali: «Vogliamo dei collegamenti, vogliamo che queste realtà convergano, pur nel reciproco rispetto, nella necessaria solidarietà sociale». È questa la sfida che oggi abbiamo davanti. Ho molto apprezzato e condiviso l’impegno del Presidente del Consiglio a ripartire dal Family Act, proponendo un vero e proprio cambio di paradigma nel modo in cui progettiamo le politiche familiari. È un passo inedito, che farà la storia del Paese. Il Family Act nasce da un’idea di fondo: riconoscere le famiglie come comunità capaci di contribuire al bene e allo sviluppo della società, non semplicemente somme di individui a cui destinare sussidi in risposta a esigenze particolari. Un serio progetto di riforma per il Paese deve infatti riconoscere un ruolo primario alle cellule sociali fondamentali su cui siamo strutturati come comunità nazionale.

Riconoscere le famiglie come soggetti che, nel loro essere comunità, contribuiscono allo sviluppo di tutti significa quindi costruire una struttura (fatta di servizi, fiscalità, organizzazione sociale e lavorativa) coerente a tale scopo. Paesi come la Francia hanno impresso una svolta alle politiche familiari quando le hanno impostate non come semplice erogazione di sussidi, ma strutturando una leva fiscale adeguata che valorizzasse le scelte familiari, insieme alla promozione di una solida rete di servizi a sostegno delle famiglie stesse. È tempo che anche nel nostro Paese superiamo una visione di politiche fatte da contributi unidirezionali, che non attivano il protagonismo fattivo nella società e nel mondo del lavoro che le stesse famiglie svolgono. È tempo per uno Stato che sappia liberare e connettere energie. È tempo che l’Italia si doti di vere e proprie politiche familiari, con quella connotazione che le distingue dalle politiche sociali e sa affiancare le une alle altre anziché sovrapporle. È tempo di un piano per le famiglie di cui i cittadini conoscano con nitidezza la direzione e le diverse articolazioni, perché nelle nostre case possa tornare ad abitare la fiducia.

La sfida del Family Act proposto da Italia Viva è quella di investire nelle relazioni fondamentali come motore di speranza e di futuro per il Paese, sostenendo dinamiche positive nelle famiglie a servizio della società e nella società per le famiglie. Interventi per attivare scelte di progettualità sul lungo termine, come l’assegno unico e universale per i figli. Ma contemporaneamente un sostegno alle spese educative delle famiglie attraverso una forma adeguata di fiscalità, la riorganizzazione dei congedi parentali (mai come in questo periodo ne abbiamo imparato l’importanza), la promozione del lavoro femminile per permettere alle donne la libertà di scegliere e di realizzarsi senza dover mettere in antitesi lavoro e famiglia, la promozione di protagonismo giovanile favorendo scelte progettuali di vita, a partire dall’abitazione e i percorsi formativi.

Il metodo proposto dal Family Act, che è una legge delega, si fonda su 3 princìpi: attivazione, semplificazione, connessione, introducendo strumenti che sappiano attivare processi positivi. Si supera la logica frammentaria e a tempo determinata dei voucher, introducendo stabilità negli interventi economici. Si propone l’utilizzo del credito di imposta per le spese sostenute dalle famiglie nei loro compiti fondamentali (come quello educativo), riconoscendo che attraverso queste azioni le famiglie generano valore sociale, valore che perciò va detassato. Si investe nel lavoro e nella costituzione di una rete sociale che sappia sostenere le famiglie e con esse cooperare.

Promuovere nuove connessioni è far crescere legami di solidarietà sociale, perché realmente ciascuno possa concorrere al bene spirituale e materiale cui ci richiama la Costituzione. Investire nelle famiglie significa nutrire dalle radici questa solidarietà come responsabilità condivisa e darle una possibilità di concretezza storica. Il tempo di questo passo è adesso. «Adesso – insegnava don Primo Mazzolari – non domani».

di Giulia Cerqueti

da www.famigliacristiana.it

@Riproduzione Riservata del 02 giugno 2020

Quest'anno cerimonia del 2 giugno ridotta a causa della pandemia, senza parata tradizionale ai Fori imperiali. Il presidente ha reso omaggio ai caduti all'Altare della Patria, poi è partito per una visita a Codogno, primo focolaio del virus. Nel suo discorso per la celebrazione ha richiamato la politica al superamento delle divisioni per far fronte comune contro il nemico invisibile e ricostruire il Paese.-

Niente parata tradizionale ai Fori Imperiali, per la 74esima Festa della Repubblica, con cui si ricorda vietata dall’emergenza sanitaria. Quest'anno la celebrazione del 2 giugno - che commemora la fine della monarchia e la nascita della repubblica con il referendum a suffragio universale del 1946 - è stata necessariamente ridotta, con pochissimi presenti, nessun assembramento. Come ogni anno, il presidente Sergio Mattarella si è recato all’Altare della Patria, in una piazza Venezia adornata da una gigantesca bandiera tricolore, per rendere omaggio ai caduti con al deposizione della corona d’alloro, insieme al premier Giuseppe Conte, i presidenti di Camera e Senato Roberto Fico e maria Elisabetta Casellati e la presidente della Corte Costituzionale Marta Cartabia.

Al termine della cerimonia, come di tradizione il cielo di Roma si è colorato di bianco, rosso e verde al passaggio delle Frecce tricolori. La pattuglia acrobatica nazionale oggi ha così concluso il suo tour italiano di cinque giorni, dopo aver sorvolato i cieli di ventuno città italiane: un evento di unità e solidarietà, come a voler abbracciare e riunire tutta l’Italia colpita dalla tragedia dell’epidemia sotto il Tricolore tracciato nel cielo. Il giro è cominciato il 25 maggio, nel Nord Italia, passando sopra Codogno, Milano, Torino e Aosta.

Dopo la cerimonia all’Altare della Patria, la Festa della Repubblica per il Presidente prosegue con la visita a Codogno, in Lombardia, primo focolaio del virus in Italia. La sera rientrerà a Roma, per una cerimonia all’ospedale Lazzaro Spallanzani. Il 2 giugno sia una giornata per riflettere «sui valori fondativi repubblicani», ha dichiarato il Capo di Stato in un messaggio rivolto ai prefetti italiani per la festa del 2 giugno. Inevitabile il riferimento alle gravi difficoltà che il Paese sta attraversando a causa della pandemia e del lockdown per bloccare il contagio. «Le dimensioni e la gravità della crisi, l'impatto che essa ha avuto su ogni aspetto della vita quotidiana, il dolore che ha pervaso le comunità colpite, hanno richiesto a tutti uno sforzo straordinario, anche sul piano emotivo. L’eccezionalità della situazione ha determinato difficoltà mai sperimentate nella storia della Repubblica, ponendo a tutti i livelli di governo una continua domanda di unità, responsabilità e coesione». Il Presidente ha aggiunto: «Il senso di responsabilità e le doti di resilienza che hanno animato le comunità nei momenti più drammatici della crisi vanno ora trasposti in un impegno comune verso gli obiettivi del definitivo superamento dell'emergenza e di una solida e duratura ripresa». Ma ha ricordato che «la crisi non è terminata e tanto le istituzioni quanto i cittadini dovranno ancora confrontarsi a lungo con le sue conseguenze».

Alla vigilia della festa della Repubblica, prima del Concerto dedicato alle vittime del Coronavirus, senza pubblico, Mattarella ha espresso un fermo, deciso richiamo all’unità e al superamento delle divisioni per fare fronte comune in questa difficile battaglia. «La nascita della Repubblica nel 1946 segnava anch’essa un nuovo inizio, superando divisioni che avevano lacerato il Paese per fare della Repubblica la casa di tutti», ha dichiarato. La ripartenza non sarà veloce, ha avvertito realisticamente il Capo di Stato. Ha ricordato «il sacrificio, il dolore, la speranza, il bisogno di fiducia» della gente. Richiamando con forza la politica e i partiti all’unità e al superamento delle dvisioni: «C’è qualcosa che viene prima della politica e che segna il suo limite. Qualcosa che non è disponibile per nessuna maggioranza e per nessuna opposizione: l'unità morale, la condivisione di un unico destino, il sentirsi responsabili l'uno dell'altro. Una generazione con l'altra. Un territorio con l'altro. Un ambiente sociale con l'altro. Tutti parte di una stessa storia. Di uno stesso popolo».

Ha poi aggiunto: «Siamo tutti chiamati a un impegno comune contro un gravissimo pericolo che ha investito la nostra Italia sul piano della salute, economico e sociale. Le sofferenze provocate dalla malattia non vanno brandite gli uni contro gli altri. Questo sentimento profondo, che avverto nei nostri concittadini, esige rispetto, serietà, rigore, senso della misura e attaccamento alle istituzioni. E lo richiede a tutti, tanto più a chi ha maggiori responsabilità. Non soltanto a livello politico». Ha rivolto poi il suo pensiero all’Europa: «Si va affermando sempre più forte la consapevolezza che la solidarietà tra i Paesi dell’Unione non è una scelta tra le tante, ma la sola via possibile per affrontare con successo la crisi più grave che le nostre generazioni abbiano vissuto. Nessun Paese avrà un futuro accettabile senza l’Unione europea».

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