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CAV - Centro di Accoglienza alla Vita Vogherese ODV

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Il richiamo di Francesco a più attente politiche familiari e l'invito a rispondere alla crisi del lavoro nell'udienza alla Federazione europea delle associazioni familiari cattoliche.-
«L’Europa continui ad avere come suo tesoro più prezioso la famiglia». È il richiamo che giunge da papa Francesco al continente di fronte alle crisi che oggi lo segnano e che riguardano anche l’istituzione familiare. Ricevendo in udienza questa mattina la Federazione europea delle associazioni familiari cattoliche (FAFCE) in occasione del ventesimo anniversario della fondazione, Francesco ricorda che le famiglie «non sono pezzi da museo», ma rappresentano «lievito che aiuta a far crescere un mondo più umano, più fraterno, dove nessuno si senta rifiutato o abbandonato».
E indica loro tre compiti: il «sostegno alle nuove generazioni», l’«accompagnamento nelle strade tante volte accidentate della vita» e la «guida che mostri riferimenti di valori e di significati nel cammino di ogni giorno».
Francesco pone l’accento sull’impegno della Federazione per la «sacralità della vita» che si concretizza in un più modi: nell’«alleanza tra le generazioni»; nel «servizio a tutti, specialmente ai più bisognosi, alle persone con disabilità, agli orfani»; nella «solidarietà con i migranti»; nella «paziente arte di educare che vede ogni giovane come soggetto degno di tutto l’amore familiare»: nel «diritto alla vita del nascituro che ancora non ha voce»; in «condizioni di vita degne per gli anziani».
Il Papa torna anche sul tema del lavoro. Chiede «politiche concrete in favore della famiglia nel settore economico e lavorativo ma non solo, miranti a procurare un lavoro degno e adeguato per tutti, specialmente per i giovani che in molte regioni d’Europa soffrono per la piaga della disoccupazione». In queste iniziative come in altre – aggiunge – «che toccano direttamente il campo legislativo, deve sempre prevalere l’attenzione al rispetto e alla dignità di ogni persona».
Non manca la denuncia di quattro crisi che attraversano il continente: quella demografica, quella migratoria, quella lavorativa e quella educativa. «Queste crisi – afferma il Pontefice – potrebbero trovare orizzonti positivi proprio nella cultura dell'incontro, laddove diversi attori sociali, economici e politici si uniscano per disegnare politiche in favore della famiglia».
Francesco parla della famiglia come di «buona notizia» e scuola di «comunione, motore della vera umanizzazione e dell’evangelizzazione» dove si pratica la «cultura dell’incontro» in grado di valorizzare «l’unità nella differenza, la reciprocità, la solidarietà tra le generazioni». Si tratta di un «capitale familiare» – sottolinea il Papa – che «è chiamato a impregnare le relazioni economiche, sociali e politiche del continente europeo.
da www. avvenire.it
@ Riproduzione Riservata del 01 giugno 2017

di Gigio Rancilio
Lettera aperta di don Andrea Bellò sulla pagina Facebook della Parrocchia san Michele Arcangelo e santa Rita, a Milano, è diventata virale.-
Questa è una piccola “brutta” storia ma che sta dando ottimi frutti.
Arriva dalla pagina Facebook della Parrocchia san Michele Arcangelo e santa Rita, in zona Corvetto, periferia sud di Milano. E come tutte le notizie, soprattutto quelle che girano sui social, va verificata.
Al telefono la voce femminile che risponde al numero della parrocchia, appena dici che sei un giornalista, si irrigidisce un po’. E ti liquida con un “il parroco non c’è”.
Sfoderi la voce più pacata che riesci a fare e spieghi: “Volevo soltanto sapere se la storia è vera e se la pagina Facebok della parrocchia è davvero vostra”.
“Sì, è tutto vero. Ma il parroco non c’è”.
Il parroco è don Andrea Bellò, diventato famoso nelle ultime ore, suo malgrado, per un post Facebook che ha firmato e pubblicato sulla pagina della Parrocchia san Michele Arcangelo e santa Rita.
Ottenere 3700 reazioni, 307 commenti e 1590 condivisioni, per una pagina che normalmente registra 15 mi piace, è un record.
A colpire gli utenti è stata la reazione di don Andrea, dopo che il muro della sua parrocchia è stato imbrattato con una scritta offensiva: “Aborto libero (anche per Maria)”.
Il parroco ha deciso di scrivere su Facebook una lettera aperta all’anonimo “imbrattatore”.
Eccola:
«Caro scrittore anonimo di muri,
Mi dispiace che tu non abbia saputo prendere esempio da tua madre. Lei ha avuto coraggio. Ti ha concepito, ha portato avanti la gravidanza e ti ha partorito. Poteva abortirti. Ma non l’ha fatto. Ti ha allevato, ti ha nutrito, ti ha lavato e ti ha vestito. E ora hai una vita e una libertà. Una libertà che stai usando per dirci che sarebbe meglio che anche persone come te non ci dovrebbero essere a questo mondo. Mi dispiace ma non sono d’accordo. E ammiro molto tua mamma perché lei è stata coraggiosa. E lo è tutt’ora, perché, come ogni mamma, è orgogliosa di te, anche se ti comporti male, perché sa che dentro di te c’è del buono che deve solo riuscire a venire fuori. L’aborto è il “non senso” di ogni cosa. È la morte che vince contro la vita. È la paura che vince su un cuore che invece vuole combattere e vivere, non morire. È scegliere chi ha diritto di vivere e chi no, come se fosse un diritto semplice. É un’ideologia che vince su un’umanità a cui si vuole togliere la speranza. Ogni speranza. Io ammiro tutte quelle donne che pur tra mille difficoltà hanno il coraggio di andare avanti. Tu evidentemente di coraggio non ne hai. Visto che sei anonimo. E già che ci siamo vorrei anche dirti che il nostro quartiere è già provato tanti problemi e non abbiamo bisogno di gente che imbratta i muri e che rovina il poco di bello che ci è rimasto. Vuoi dimostrare di essere coraggioso? Migliora il mondo invece di distruggerlo. Ama invece di odiare. Aiuta chi è nella sofferenza a sopportare le sue pene. E dai la vita, invece di toglierla! Questi sono i veri coraggiosi! Per fortuna il nostro quartiere, che tu distruggi, è pieno di gente coraggiosa! Che sa amare anche te, che non sai neanche quello che scrivi!
Io mi firmo:
don Andrea»


Che una Chiesa venga imbrattata da scritte offensive, purtroppo non è una novità. E nemmeno che un parroco usi i social per cercare un dialogo con un aggressore. E non è una novità nemmeno che un sacco di persone plaudano alla sua scelta.
Ciò che è nuovo, anzi rinnovato è il coraggio di questo gesto. La bellezza di questo gesto. L’esempio di questo gesto.
da www.avvenire.it
@ Riproduzione Riservata del 31 maggio 2017

Solo un terzo dei nuclei in Europa ha figli in casa: 65 milioni su 220. Maglia rosa all'Irlanda, con 4 nuclei su 10 con prole. In Italia solo 8 famiglie su 100 hanno 3 figli o più.-
Solo un terzo delle famiglie in Europa ha figli; in termini assoluti, 65,6 milioni su 220. Tra tutti i Paesi, il record di famiglie con figli va all'Irlanda (4 nuclei su 10), seguiti da Cipro e Polonia (entrambi al 38%). Povere di figli, al contrario, sono le famiglie tedesche e finlandesi, dove solo due famiglie su 10 "tengono prole" (per l'esattezza 22%). Di tutte le famiglie con bambini, quasi la metà (47%, pari a 31 milioni) ha solo un figlio da mantenere.
La fotografia è stata tracciata dall'Eurostat, l'Istituto di statistica europeo, alla vigilia della Giornata globale dei genitori che si celebra il 2 giugno. Proprio in questi giorni si sta svolgendo a Roma la tre giorni delle 14 associazioni familiari cattoliche d'Europa (Fafce), il cui presidente, Antoine Renard, in una intervista ad Avvenire aveva detto: «Le famiglie sono il tesoro dell'Europa. Non perdiamo tempo. È urgente avviare un'azione vasta, pressante e concordata per mostrare a ogni livello sociale, culturale e politico che la famiglia è la prima risorsa della società. Senza la famiglia l'Europa non avrà fu
E purtroppo il futuro sembra segnato, a scorrere i dati dell'Eurostat: la grande maggioranza delle famiglie negli Stati europei ha un solo figlio (I dati si riferiscono a figli sotto i 15 anni e a tutti quelli tra i 15 e i 24 anni che ancora dipendono dai genitori). Le uniche eccezioni sono l'Olanda, la Svezia, l'Irlanda e la Danimarca, dove la percentuale di famiglie con due figli è più alta.

Famiglie numerose: Italia all'8 per cento

Le famiglie numerose, cioè quelle con 3 figli o più, in molte parti d'Europa sono in via d'estinzione: in passato vanto dell'Italia, da noi sono appena 8 su 100, come in Spagna, mentre all'estremo opposto c'è l'Irlanda, con il 27% dei nuclei. Fanalino di coda la Bulgaria, con appena 5 famiglie su 100 che mettono al mondo tre figli o più.

Un figlio solo per metà delle famiglie con prole

Dei 65,6 milioni di famiglie con figli ancora in casa, poco meno della metà, cioè 31 milioni, ha solo un figlio. 26 milioni ne hanno due e solo 8,5 milioni tre o più.

Genitori single: record in Danimarca

Il fenomeno dei genitori single è particolarmente diffuso nei Paesi del Nord Europa: 1 su 3 in Danimarca, Lituania, uno su 4 in Svezia, uno su 5 in Gran Bretagna, Francia e Lettonia. La coppia tiene di più in Paesi come la Croazia (5 per cento), la Romania (7 per cento), la Grecia e la Slovacchia (8 per cento). In generale, il 15 per cento delle famiglie con figli è monoparentale.
da www.avvenire.it
@ Riproduzione Riservata del 31 maggio 2017
turo».
 

di José Tolentino Mendonça
Abramo è un errante, Mosè un itinerante. Spesso Gesù propone: «Passiamo all'altra riva» e li invia a predicare nel mondo.-
Il tempo costituisce fondamentalmente una sorta di coreografia interiore. Si direbbe che la vita stessa ci sollecita ad ascoltarla in un altro modo. È con questo imperativo che ognuno di noi è chiamato a confrontarsi: l'irresistibile necessità di ritrovare la vita nella sua forma pura. Per esempio: se la linea azzurra del mare ci seduce tanto, è anche perché questa immensità ci ricorda il nostro vero orizzonte; se saliamo sulle alte montagne, è perché nella visione chiara che di lassù si raggiunge del reale, in quella visione fulgida e senza cesure riconosciamo una parte importante di un appello più intimo; se andiamo in cerca di altre città (e, in queste città, di un'immagine, di un frammento di bellezza, di un non so che...), è anche perché stiamo inseguendo una geografia interiore; se semplicemente ci concediamo un'esperienza del tempo dilatata (pasti assunti senza fretta, conversazioni che si prolungano, visite e incontri), è perché la gratuità, e solo essa, ci dà il sapore protratto dell'esistenza stessa.
Prendiamo quel verso coniato da Rainer Maria Rilke che dice: «Attendo l'estate come chi attende un'altra vita». Questo verso non ci proietta al di fuori di noi, piuttosto ci inizia all'arte dell'immersione interiore. Davvero durante i lunghi inverni del tempo non è una vita strana e fantasiosa quella che dobbiamo attendere (e per la quale lavorare!), ma una vita che realmente ci appartenga. È di un'estate così che Rilke parla, e che può coincidere con qualsiasi stagione: una necessaria opportunità per immergerci più a fondo, più dentro, più in alto, accettando il rischio di cogliere la vita integralmente e di stupircene. Nella scarsità e nella pienezza, nella dolorosa imprevedibilità come nella saggezza fiduciosa.Pensiamo alla proposta che, più di una volta, Gesù fa ai discepoli: «Passiamo all'altra riva» (Mc 4,35). Passare all'altra riva non significa necessariamente il trasferimento a un altro luogo, diverso da quello in cui ci troviamo.
A volte, tutto quel che ci serve è abitare la vita in un altro modo. È semplicemente camminare con un altro passo sulle strade che già ogni giorno percorriamo. È aprire la finestra quotidiana, ma lentamente, nella consapevolezza che la stiamo aprendo. È reimparare un'altra qualità per una quotidianità forse troppo abbandonata alla routine e ai suoi automatismi. È, in fondo, assaporare il gusto delle cose più semplici. Possiamo fare un viaggio indimenticabile, rapiti dal sapore dell'istante presente, dalla contemplazione del paesaggio che ci è più vicino, dalla saggezza di una conversazione, dal silenzio di un libro che già abbiamo tra le mani. Pensiamo a quanto scrisse Marcel Proust: «Non ci sono forse giorni della nostra infanzia che abbiamo tanto pienamente vissuti come quelli che abbiamo passato con un libro prediletto». Che sfida, questa nozione di "giorni pienamente vissuti", e come ci è necessario avvicinarci a essa!«Passiamo all'altra riva». I viaggi non sono solo esteriori. Non è semplicemente nella cartografia del mondo che l'uomo viaggia. Fare uno spostamento comporta un cambio di posizione, una maturazione dello sguardo, apertura al nuovo, un adattamento a realtà e linguaggi, un confronto, un dialogo, inquietante o incantato, che necessariamente lascia impressioni molto profonde. L'esperienza del viaggio è esperienza della frontiera e di nuovi spazi, di cui l'uomo ha bisogno per essere sé stesso. «Passiamo all'altra riva».
Il viaggio è una tappa fondamentale nella scoperta e nella costruzione di noi stessi e del mondo. È la nostra coscienza che cammina, scopre ogni dettaglio del mondo e tutto guarda di nuovo come fosse la prima volta. Il viaggio è una sorta di propulsore di tale sguardo nuovo. Per questo è capace di introdurre nella nostra vita e nei suoi schemi, nella sua organizzazione, elementi sempre inediti che possono operare quella ricontestualizzazione radicale che, con un vocabolario cristiano, chiamiamo "conversione". Molti cambi di paradigma epocali (anche ecclesiali) hanno avuto a che vedere precisamente con l'accettazione di uno sguardo viaggiante sul nostro mondo abituale e le sue convenzioni. Lo scrittore Bruce Chatwin utilizza, al riguardo, l'espressione «alternativa nomade», espressione secolarizzata, ma che può ben essere ricondotta al campo teologico e biblico.
Abramo è un errante. Mosè scopre la sua vocazione e missione come mandato di itineranza. Molti dei profeti d'Israele, da Elia a Giona, vissero da esiliati e proscritti. Gesù non aveva dove posare il capo (Lc 9,58) e abitava, dandogli senso, un transito permanente. I suoi discepoli sono inviati ai quattro angoli della terra (Mt 28,19). Il cristianesimo si definisce così attraverso una extraterritorialità simbolica, senza città e senza dimora, che permette la breccia, l'apertura alla rivelazione di un senso più grande. «Passiamo all'altra riva», ci propone Gesù.
da www.avvenire.it
@ Riproduzione Riservata del 29 maggio 2017

Lo ha detto Francesco all'Ilva. A clero e religiosi in cattedrale: no al prete statico che programma tutto. Ai giovani: non siate turisti della vita. Le parole ai bambini del Gaslini.-
Alle 17 sarà celebrata la Messa nel Piazzale Kennedy. Il Papa ripartirà da Genova alle 18.45.

Ore 16 la visita all'ospedale pediatrico Gaslini

Il Papa prima di parlare con i pazienti ha fatto visita al reparto di Rianimazione, trattenendosi a lungo. Nel piazzale dell'ospedale ha poi preso la parola il cardinale Bagnasco, che ha descritto il luogo come «un santuario della sofferenza», quella dei bimbi e delle famiglie, che riassume il mistero della sofferenza umana, ma anche di «santuario della tenerezza» di tanti operatori e famiglie nei confronti dei piccoli pazienti.
Il Papa poi ha pronunciato un breve discorso. La sofferenza dei bambini è la più dura da accettare. «Tante volte mi faccio una domanda: perché soffrono i bambini? E non trovo una risposta, guardo il crocifisso e mi fermo lì». E poi: chi serve i malati con amore serve Gesù che ci apre il Regno dei cieli.
L'attesa dei pazienti
Selfie per immortalare il momento dell'attesa, cori e striscioni dedicati a papa Francesco, oltre alle immancabili bandiere bianche e gialle che sventolano nel giardino dell’istituto pediatrico “Giannina Gaslini” dove alle 16 è arrivato papa Francesco. Nonostante il sole a picco tantissimi sono i piccoli pazienti in prima fila accompagnati dai genitori e dal personale medico dell’ospedale pediatrico genovese. Al Papa chiederanno una carezza e una preghiera che li consoli anche nelle giornate più difficili. Il presidente della storica istituzione genovese voluta dal senatore Gerolamo Gaslini per onorare la figlia morta in tenera età, ha voluto ricordare che sono in cura 700 bambini di 70 diverse nazionalità: “In questo quadro la visita del Pontefice che è a capo della Chiesa, ma al tempo stesso rappresenta tutte le religioni, è un evento straordinario”.

Ore 13.30 il pranzo con i poveri

Papa Francesco ha pranzato, a porte chiuse, con 135 persone - poveri, profughi, senza fissa dimora e 25 detenuti delle carceri di Genova- nella Sala del Caminetto del Santuario della Madonna della Guardia. Il pranzo è stato organizzato dalla cooperativa sociale San Giovanni al Santuario della Guardia. Menù: trofie al pesto, arrosto e crostata. Il Papa ha pranzato tra due migranti africani giunti da poco in Italia e in attesa di ottenere asilo, con i quali ha parlato e scherzato a lungo. Poi si è riposato brevemente prima di riprendere la visita.

Ai giovani: non siate turisti della vita, abbiate coraggio

Papa Francesco prende la parola esortando i fedeli: «Vi invito a pregare la Madonna in silenzio: ognuno le dica quello che ha nel cuore. È nostra mamma». Anche il Papa si siede, in preghiera, gli occhi rivolti alla statua lignea della Madonna sopra l'altare. Rivolge quindi a voce alta una preghiera a Nostra Signora della Guardia: «Ascolta le nostre confidenti preghiere, soccorrici in ogni nostra necessità e liberaci dal male, soprattutto dal peccato». Dopo l'introduzione del cardinale Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova, il Papa risponde a quattro domande formulate dai giovani della missione diocesana. Una missione dei giovani ai giovani dal titolo «Gioia piena». L'incontro viene seguito in collegamento televisivo dai detenuti del carcere di Genova.
«Non siate turisti superficiali tra la gente»
«Gioia non è lo stesso che divertirsi. Sì, ti fa felice la gioia, ma non è superficiale. È questa gioia che avete vissuto in quest'anno» dice il Papa ai giovani della missione diocesana. «Adesso vorrei chiedere: come avete sentito che questa esperienza che avete vissuto vi ha trasformati? Perché andare in missione significa lasciarsi trasformare dal Signore. Normalmente, quando viviamo queste attività, ci rallegriamo quando le cose vanno bene. Ma c'è anche un'altra trasformazione, che è nascosta: l'essere missionari ci porta a imparare a guardare con gli occhi nuovi». Così smettiamo di essere «turisti della vita», che guardano superficialmente solo quello che vogliono, e impariamo a vivere la vita per quello che è, toccando la realtà. «La missione ci avvicina al cuore di tante persone e distrugge l'ipocrisia». «Quando vado in missione, non è solo la decisione mia a farmi andare: è Gesù che mi fa guardare la vita con occhi nuovi». La missionarietà, spiega Francesco, ci insegna che non esiste una Chiesa dei puri e una degli impuri. «Siamo tutti peccatori e tutti con lo Spirito Santo dentro che può farci santi».
Solo amando si può essere missionari
Come essere missionari nei confronti dei giovani in difficoltà, magari alle prese con problemi di droga? «Solo amando, con un cuore che ama». Il Papa aggiunge che, in confessionale, chiede se dando l'elemosina si tocca la mano e si guarda negli occhi il mendicante: «Amare è avere la capacità di stringere la mano sporca e di guardare gli occhi di chi è in situazione di degrado e dire: per me tu sei Gesù. È questo l'inizio di ogni missione». Se penso di andare in missione tra «questi stupidi», «meglio che stia in casa a dire il Rosario, mi farà meglio». Perché dovrei amarli? «C'è una certezza che ci deve fare testardi nella speranza: in ognuna di queste persone vittime di situazioni difficili c'è un'immagine di Dio che, per diversi motivi, è stata maltrattata, calpestata, c'è una storia di dolore, di ferite che noi non possiamo ignorare. E questa è la pazzia della fede». Come guarda Gesù questa gente? Dobbiamo imparare a guardare con gli occhi di Gesù. Quando andremo «dall'altra parte», Gesù ci dirà che «Lui era quella gente». Tutti siamo sporchi, ricorda Francesco, e Gesù ci ha salvato.
Mai aggettivare le persone: ciascuno ha un nome
«Solo Dio può giudicare le persone, e lo farà» alla fine dei tempi. Ma noi non dobbiamo dire: è un delinquente, è un ubriacone. No: si va in missione fra le persone che hanno un nome, non un aggettivo, ribadisce il Papa. «Non do elemosina a quello perché si beve tutto» esemplifica il Papa. E obietta: «Ma se è l'unica cosa che gli dà gioia?». Se vogliamo essere missionari del Vangelo «mai escludere, mai isolare, mai ignorare nessuno».
Il coraggio di farsi un giudizio proprio
Per essere discepolo «ci vuole lo stesso cuore del navigatore: orizzonte e coraggio». La capacità di contemplare l'orizzonte vuol dire anche farsi un giudizio proprio, ricorda Francesco. «A me piace questo Gesù che importuna, è un Gesù vivo. Dobbiamo imparare a sfidare il presente: di fronte alle cose che ci propone la cultura attuale ci dobbiamo domandare: ma questo è normale o no? I giovani sono le prime vittime di questi venditori di fumo. Uno dei primi coraggi che voi giovani dovete avere è domandarvi: ma questo è normale o no? Il coraggio di cercare la verità... È normale che il Mediterraneo sia diventato un cimitero? L'Italia è generosa, ma tanti Paese alzano muri contro questa gente sfruttata e piagata nei propri Paesi». Se non è normale, continua il Papa, dobbiamo mobilitare le nostre risorse per cambiare. «Se non è normale, coinvolgiti. Se non hai coraggio, chiedilo a Dio».
Il Papa si congeda dai giovani - anche quelli che lo ascoltavano fuori dal santuario, sotto un sole cocente - con un "suggerimento": recitare ogni mattina una piccola preghiera: «Signore, ti chiedo non smettere di sfidarmi, vieni a importunarmi un po' e dami il coraggio di poter risponderti».
Infine, un breve saluto ai detenuti che hanno seguito l'incontro in collegamento televisivo dal carcere di Genova.

Al clero: «No al prete statico, chiuso alle sorprese di Dio»

L'incontro nella cattedrale di San Lorenzo con i vescovi della Liguria, clero, seminaristi e religiosi e rappresentanti di altre religioni si apre con un momento di silenzio e preghiera. «Vi invito a pregare insieme per i nostri fratelli copti egiziani, che sono stati uccisi perché non volevano rinnegare la fede» ha esordito il Papa ricordando il massacro di ieri in Egitto e invitando tutti presenti a recitare un'Ave Maria. È poi cominciato il dialogo con i presenti, sempre in forma di 4 domande alle quali il Papa ha risposto.
Lo stile del prete? Quello di Gesù, fra la gente
Alla domanda di un viceparroco, Francesco risponde: «Più imitiamo lo stile di Gesù, più faremo bene il nostro lavoro». Ma qual era lo stile di Gesù? «Sempre in cammino, in mezzo alla folla». «La maggior parte del tempo la passava sulla strada. Poi la sera si nascondeva per pregare». «Gesù era esposto alla dispersione, come tutti quelli che camminano. Non dobbiamo avere paura del movimento e della dispersione del nostro tempo. La paura più grande è quella di una vita statica, del prete che ha tutto ben risolto, in ordine, strutturato: gli orari, aperture». «Al prete statico chiederò: ma non ti viene voglia di passare con Signore un po' più tempo? Quel parroco è un buon imprenditore, ma vive da cristiano?». «Gesù sempre è stato un uomo aperto alle sorprese di Dio. L'incontro col Padre è l'incontro con le persone». «Tutto si deve vivere in questa chiave dell'incontro, non c'è una formalità troppo rigida che impedisca l'incontro. Nella preghiera tu puoi stare un'ora davanti al tabernacolo ma pregando senza incontrare il Signore, come un pappagallo. Così perdi il tuo tempo. Con la gente è lo stesso». «Noi preti sappiamo quanto soffre la gente quando viene a chiedere qualcosa e diciamo "sì, sì ma non ho tempo"». Talvolta la gente è «stufante», ma il prete deve «lasciarsi stancare dalla gente, non difendere troppo la propria tranquillità». «Incontrare la gente è una croce? Quanti drammi devi vedere, e questo stanca l'anima». Una delle cose che non piacciono al Papa è «quando il sacerdote parla troppo di se stesso: non è un uomo dell'incontro, al massimo dello specchio, ha bisogno di riempire il vuoto del cuore parlando di sé». «Il prete che ha una vita di incontro col Signore e con la gente, finendo la giornata strappato, san Luigi Orione diceva "come uno straccio", sa ascoltare, è uomo di orecchio, si lascia stancare dalla gente, è come Gesù». Una cosa che non aiuta è la «debolezza nella diocesanità». «Nella sua vita Gesù mai si è legato alle strutture, sempre si legava ai rapporti. Se un sacerdote vede che la sua vita è troppo legata alle strutture, non va bene questo». «Ho sentito un uomo di Dio che diceva: nella Chiesa si deve vivere quel tetto minimo di strutture per il massimo di vita e mai il contrario. Senza rapporti con Dio e con il prossimo, niente ha senso nella vita di un prete. Farai carriera, ma il cuore rimarrà vuoto». «Questi criteri sono antichi? Così è la vita. Sono i vecchi criteri della Chiesa che sono moderni, ultramoderni».
La fraternità è minata dall'invidia e dalla gelosia
Alla domanda sulla fraternità sacerdotale, il Papa risponde con un'altra domanda: «Quanti anni ha Lei? Ottantuno? Gliene avrei dati 20 di meno». «Fraternità è una bella parola, ma non si quota in Borsa. È tanto difficile la fraternità, è un lavoro di tutti i giorni». «Ascoltarsi, pregare insieme, un buon pranzo e fare festa insieme. I preti giovani, una partita di calcio insieme. Questo fa bene. Fratelli». «Dobbiamo recuperare il senso della fraternità. È una parola che non è entrata profondamente nel cuore dei presbiteri ancora». «Dobbiamo aiutarci l'uno l'altro. Anche litigare, come litigavano i discepoli quando si domandavano chi fosse il più grande di loro. È bello sentire discussioni nelle riunioni sacerdotali perché se c'è discussione c'è libertà, amore, fiducia, fratellanza». «Vi dirò una cosa: sapete che per fare le nomine di vescovi si chiedono informazioni. Alcune volte si trovano vere calunnie o opinioni che svalutano la persona del prete. E si capisce che dietro c'è gelosia, invidia. C'è tradimento, si spella il fratello». «Il nemico grande della fraternità sacerdotale è questo: la mormorazione, il giudicare male i fratelli. Più siamo chiusi nei nostri interessi, più giudichiamo gli altri». E cita il cardinale Canestri: la Chiesa è come un fiume, l'importante è essere dentro il fiume, non importa se un po' più sulla destra o sulla sinistra. «Tante volte noi vogliamo che il fiume diventa piccolo, soltanto dalla nostra parte, e condanniamo gli altri. Tutti dentro il fiume, tutti. Questo si impara in seminario. Io consiglio ai formatori: se vedete un seminarista bravo ma che è un chiacchierone cacciatelo via, se non si corregge, perché sarà un'ipoteca per la fratellanza presbiteriale dopo. "Alleva corvi e ti mangeranno gli occhi" dice un detto».
La diocesanità ci salva dall'astrazione
Rispondendo a una religiosa, il Papa affronta il tema a lui caro della diocesanità. «La diocesi è quella porzione del popolo di Dio che ha faccia. Ha fatto, fa e farà storia. Tutti siamo inseriti nella diocesi». «I carismi non nascono dall'aria, ma in posti concreti». «E questo ci insegna ad amare gente concreta in posti concreti: la concretezza della Chiesa la dà la diocesanità. Questo aiuta il carisma a farsi più reale, più vicino». Quando i religiosi si riuniscono in capitolo, vengono dalle diverse concretezze. Un carisma che non si inserisse nella diocesanità, rischierebbe di essere autoreferenziale, «e questo non è la Chiesa, che è universale». il Papa ricorda l'importanza della disponibiltà: essere disponibili a andare oltre, non avere paura dei rischi.
il calo delle vocazioni? Dare testimonianze di autenticità e gioia
«C'è un problema demografico in Italia, siamo sotto zero, se non ci sono ragazzi e ragazze non ci saranno vocazioni. È più facile convivere con un gatto o con un cane che con i figli. Ma la crisi vocazionale tocca tutta la Chiesa, anche laicale e matrimoniale. Non si sposano, i giovani: convivono. Cosa dobbiamo fare, cambiare? Dobbiamo imparare dai problemi». «La tratta delle novizie è stata uno scandalo, nelle Filippine e anche in alcuni Paesi dell'America Latina. Alcune congregazioni andavano in Paesi ex comunisti, poveri, quindici anni fa, anche qui a Roma». «È difficile il lavoro vocazionale, ma si deve fare. Dobbiamo essere creativi». Come si fa? Con la «fedeltà al carisma vocazionale e con la testimonianza che siamo felici e che finiamo la nostra vita felici». Una testimonianza di gioia, anche nel modo di vivere. «È importante la missionarietà, lo zelo apostolico che non vive per se stesso ma per gli altri». E cita un caso, a Buenos Aires nel 1992, di ristrutturazione di una casa di suore con la tivù in ogni stanza: ma i giovani chiedono testimonianze di autenticità. «Con certi comportamenti siamo stati noi stessi a provocare la crisi vocazionale. Ci vuole una conversione pastorale e missionaria». Il Papa invita a riprendere in mano l'Evangelii Gaudium. «Dio le vocazioni le dà. Ma bisogna ascoltare i giovani ed essere sempre in movimento». Il seme della vocazione nasce dalla testimonianza: «Vorrei essere come quello». La testimonianza «si fa senza parole». Infine il Papa aggiunge: «il Signore è grande e ci darà figli e nipoti nelle nostre congregazioni e nelle nostre diocesi».

Ore 9.30 l'attesa in cattedrale

Nella Cattedrale di San Lorenzo i canti e la recita del rosario scandiscono il tempo dell’attesa: oltre 1.600 sono i religiosi e le religiose, i sacerdoti e i vescovi che aspettano l’arrivo di papa Francesco. Dalle prime ore del mattino in file ordinate trepidanti e ansiosi sacerdoti ma anche suore e consacrati convergevano verso una piazza San Lorenzo transennata e controllata dalle forze dell'ordine e dal servizio di volontari predisposto dalla Chiesa di Genova. Fuori dalla Cattedrale un maxi schermo permette di seguire la celebrazione di papa Francesco anche a chi non ha trovato posto nella Cattedrale stracolma: a quello che doveva essere l'appuntamento con la comunità religiosa genovese si è unito però anche un gran numero di fedeli che si sono disposti appena fuori dalle transenne per salutare l’arrivo nel centro cittadino di papa Francesco. (dall'inviata Ilaria Solaini)

All'Ilva: «Il lavoro è una priorità umana. E del Papa»

«È la prima volta che vengo a Genova, qui vicino al porto da dove è partito il mio papà. E questo mi fa una grande emozione» così ha esordito papa Francesco, dopo aver ascoltato il saluto di benvenuto del cardinale Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova. Si è poi svolto il dialogo, in 4 domande e 4 risposte, con esponenti del mondo del lavoro. Un imprenditore, una lavoratrice interinale, un sindacalista, un disoccupato.
ANALISI Lavoro e dignità per i suoi figli: all'Ilva il Papa come un «semplice» prete dell'inviato Paolo Viana
Il buon imprenditore e lo speculatore
Accolto dagli applausi, il Papa scandisce: «Il lavoro è una priorità umana, e quindi della Chiesa e del Papa». «Non c'è buona economia senza buon imprenditore» afferma. «Il lavoro va fatto bene». E pensare che il lavoratore lavori bene solo perché è pagato è una grande disistima nei suoi confronti. Bisogna lavorare bene per rispetto della propria dignità, e della dignità del lavoro. «Il vero imprenditore conosce i suoi lavoratori, ne condivide le fatiche e le gioie. Se non ha l'esperienza della dignità del lavoro non sarà un buon imprenditore. Quando deve licenziare qualcuno è sempre una scelta dolorosa. Nessun buon imprenditore ama licenziare la sua gente. Chi pensa di rivolvere il problema della sua impresa licenziando gente è un commerciante. Oggi vende la sua gente, domani venderà la dignità propria». E ricorda l'episodio, già citato in altre occasioni, di un imprenditore che lo ha avvicinato piangendo, dopo la Messa in Casa Santa Marta, perché costretto a dichiarare fallimento facendo perdere il lavoro a 60 persone. «Pregava e piangeva». L'imprenditore «non è uno speculatore, che usa e strumentalizza persone per fare profitto». Lo speculatore licenzia, sposta l'azienda, senza problemi. «Con lo speculatore l'economia perde volto e volti. Dietro le decisioni dello speculatore non ci sono persone. Bisogna temere gli speculatori, non gli imprenditori». «Paradossalmente, qualche volta il sistema politico sembra incoraggiare chi specula sul lavoro e non chi crede nel lavoro. Perché crea burocrazia e controlli, così chi non è speculatore rimane svantaggiato e chi lo è riesce a trovare i mezzi per eludere i controlli». il Papa cita l'economista Luigi Einaudi: «Milioni di individui lavorano, producono e risparmiano nonostante tutto quello che noi possiamo inventare per scoraggiarli. È la vocazione naturale che li spinge, non soltanto la sete di guadagno».
Il ricatto sociale e la dignità. «Lavoro per tutti, non reddito garantito»
Francesco prende poi spunto dalle parole di una lavoratrice interinale: «Tu hai finito con la parola "riscatto sociale". A me viene in mente "ricatto sociale". Quello che dico adesso è accaduto in Italia un anno fa. C'era povera gente disoccupata. La ragazza che me lo ha raccontato era colta, parlava alcune lingue. Le hanno detto: saranno 10-11 ore al giorno, lei ha detto "Sì, sì". Le hanno detto: si comincia con 800 euro al mese. Lei: "800 soltanto, 11 ore?". L'impiegato dello speculatore le ha detto: signorina, guardi indietro la coda, se non le piace se ne vada. Questo è ricatto». «Un'altra persona mi ha raccontato che ha lavoro, ma da settembre a giugno. Viene licenziato a giugno e ripreso a settembre. E così si gioca, nel lavoro in nero». Dopo queste aggiunte a braccio, Francesco prende in mano il testo scritto: «I luoghi della Chiesa sono i luoghi della vita, dunque anche le piazze e le fabbriche. Molti degli incontri tra Dio e gli uomini sono avvenuti mentre le persone lavoravano: Mosè pascolava il gregge, i primi discepoli erano pescatori. La mancanza di lavoro è molto più del venire meno di una sorgente di reddito per poter vivere. Lavorando noi diventiamo "più" persone, la nostra umanità fiorisce. I giovani diventano adulti solo lavorando». «Il lavoro è amico dell'uomo e l'uomo è amico del lavoro. Gli uomini e le donne si nutrono con il lavoro, con il lavoro sono unti di dignità». Per questo «attorno al lavoro si unisce l'intero patto sociale». Quando non si lavora «la democrazia entra in crisi». E cita l'articolo 1 della Costituzione italiana: «L'Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro». «Togliere il lavoro, sfruttare la gente è anticostituzionale». «L'obiettivo vero da raggiungere non è il reddito per tutti, ma il lavoro per tutti. Perché senza lavoro per tutti non ci sarà dignità per tutti». «Il lavoro di oggi e di domani sarà diverso, forse molto diverso da quello di ieri. Ma dovrà essere lavoro, non pensione. Si va in pensione all'età giusta, è un atto di giustizia. Ma è contro la dignità delle persone mandarle in pensione a 40 anni, dare loro un assegno dello Stato e dire "Arrangiati"». «La scelta è fra il sopravvivere e il vivere».
La meritocrazia è un'ingiustizia
La competitività non è buona impresa, perché mina «quel tessuto di fiducia che è l'anima di ogni organizzazione». «Bisogna dire con forza che questa cultura competitiva tra i lavoratori dentro l'impresa è un errore e quindi va cambiata se vogliamo il bene dell'impresa, dei lavoratori e dell'economia». Un altro errore: la meritocrazia. «Usa una parola bella, il merito, ma sta diventando una legittimazione etica della diseguaglianza perché interpreta i talenti delle persone non come un dono ma come un merito, determinando un sistema di vantaggi e svantaggi cumulativi». In questa cultura, «il povero è considerato un demeritevole e quindi un colpevole». È la vecchia logica degli amici di Giobbe, che volevano convincerlo di essere colpevole della propria sventura. È la logica del fratello maggiore nella parabola del Figliol Prodigo.
No al lavoro domenicale
Una disoccupata. Ci sono quelli che vorrebbero lavorare ma non riescono e quelli che sono «Senza il tempo della festa, il lavoro è schiavismo. Nelle famiglie dei disoccupati non è mai domenica. Per celebrare la festa dobbiamo celebrare il lavoro». Il lavoro è fatica, ma «una società edonista che vuole solo il consumo non capisce il valore del lavoro». «Tutte le idolatrie sono esperienze di puro consumo». «Senza ritrovare una cultura che stima la fatica e il sudore - sottolinea il Papa - continueremo a sognare il consumo di puro piacere». «Il lavoro è il centro di ogni patto sociale».
E papa Francesco chiude con l'invocazione allo Spirito Santo: «Vieni Santo Spirito... nella fatica riposo, nella calura riparo, nel pianto conforto. Dona virtù e premio, dona morte santa, dona gioia eterna. Amen».

Ore 8.30

Comincia il viaggio apostolico a Genova di papa Francesco con la prima tappa allo stabilimento Ilva di Cornigliano, dove il Papa risponde a 4 domande di un imprenditore, una lavoratrice interinale, un sindacalista e un lavoratore. Partecipano all'incontro 3.500 persone.

Ore 8.20

Papa Francesco atterra all'aeroporto Cristoforo Colombo di Genova. Il Pontefice è arrivato nello scalo genovese a bordo di un Falcon dell'aeronautica militare, partito dall'aeroporto di Ciampino. Ad attenderlo c'erano le massime autorità genovesi civili ed ecclesiastiche.
da www.avvenire.it
@ Riproduzione Riservata del 27 maggio 2017
 
 
 
 
 

 

Grazie all'accordo con la Regione e tra i due ospedali romani il nosocomio della Santa Sede diventa un punto nascita per i casi ad alto rischio. Trenta i parti previsti nel 2017, quattro a giugno.-
Ora dorme serenamente tra le braccia della mamma. Kevin ha un mese e mezzo di vita ed è il primo nato al Bambino Gesù. Il parto nell’ospedale pediatrico della Santa Sede è stato possibile grazie al via libera della Regione Lazio e alla convenzione siglata con l’ospedale San Pietro Fatebenefratelli di Roma, un’eccellenza nel campo dell’ostetricia. Il piccolo, venuto alla luce l’8 aprile scorso grazie all’aiuto di una équipe mista e già dimesso, era affetto da ernia diaframmatica congenita ad alto rischio, una patologia rara e complessa che richiede un’assistenza altamente specialistica al momento della nascita per scongiurare il pericolo di morte. Un secondo neonato, affetto da un difetto cardiaco, è venuto inoltre alla luce il 28 aprile scorso ed è stato sottoposto nei giorni scorsi a un’operazione chirurgica che gli ha consentito correggere in modo definitivo il suo problema al cuore.
«Con l’ok della Regione Lazio abbiamo potuto unire le forze di un’eccellenza ostetrica e di una neonatale», sottolinea il professor Pietro Bagolan, direttore del dipartimento di Neonatologia dell’ospedale pediatrico della Santa Sede. «Il risultato ­– aggiunge - è un esempio di buona sanità al servizio del bambino gravemente malato e della sua famiglia». Ora questo risultato, gli fa eco il dottor Marco Bonito dell’ospedale San Pietro Fatebenefratelli, «è motivo di grande orgoglio e soddisfazione poter condividere con una eccellenza come il Bambino Gesù un percorso così importante e stimolante avente un solo obiettivo: tutelare la salute della donna e del bambino, offrendo loro la migliore assistenza possibile».

Un punto nascita per bambini ad alto rischio

Il Bambino Gesù copre tutte le specialità mediche e chirurgiche pediatriche, compresa la diagnostica prenatale e la ginecologia, ma non ha un reparto di degenza ostetrica. Con l’autorizzazione della Regione Lazio e l’accordo con il San Pietro, diventa a tutti gli effetti un punto nascita per i casi ad alta complessità che possono richiedere interventi in emergenza. Con l’intesa - siglata a marzo 2017 - si ottimizzano i tempi del parto, evitando a nascituri particolarmente vulnerabili i rischi del trasporto da una struttura all’altra e si rendono immediatamente disponibili, in un’unica sede, tutte le possibili competenze ostetriche e medico-chirurgiche neonatali. Sono circa 30 le nascite programmate nel 2017, quattro delle quali nel mese di giugno. Le future mamme vengono selezionate per il parto al Bambino Gesù da un apposito comitato di entrambi gli ospedali che valuta le caratteristiche della gravidanza e la gravità delle condizioni del bambino.

Le patologie che mettono a repentaglio la vita del neonato

Le patologie che possono comportare un intervento in emergenza alla nascita e che richiedono un’assistenza altamente specialistica sia chirurgica che tecnologica, sono quelle che impediscono al bambino di respirare o che non consentono al sangue di circolare come dovrebbe. Si tratta di bambini talmente delicati che il solo disturbo provocato dall’applicazione del gel per eseguire un’ecografia può alterare i loro parametri vitali. In questi casi il trasporto incide sensibilmente sulla prognosi: ne mette a rischio la sopravvivenza e può comportare danni cerebrali anche molto gravi. Rientrano in questa categoria le tumefazioni del collo tanto voluminose da ostacolare la respirazione; le patologie toraciche che influiscono sullo sviluppo dei polmoni (come l’ernia diaframmatica congenita, malattia di cui era affetto il primo nato al Bambino Gesù) e alcune cardiopatie congenite potenzialmente letali alla nascita.
da www.avvenire.it
@ Riproduzione Riservata del 26 maggio 2017
 
 
 
 

Di Gloria Riva .-
Vivo in un convento dedicato a san Francesco, fondato nella Repubblica di San Marino mentre il santo era ancora vivente, così la “sparata” dei “grillini” sulla loro presunta identità francescana, mi ha alquanto provocato. Lo abbiamo edulcorato così tanto, san Francesco, da permettere a persone senza una vera identità cristiana di paragonarsi a lui! Ne abbiamo fatto il santo ecologico; il santo protettore degli animali, il santo pacifista, il santo, tutto sentimento, che fa pendant con santa Chiara (altra grande donna bistrattata), al punto da dimenticare l'asprezza della sua vita e la forza che egli traeva dalla croce. Per fortuna l'arte ci permette di non dimenticare, forse per questo non è amata dai totalitarismi di ogni colore! Penso alle austere tele del pittore dei frati, Francisco de Zurbarán, dove san Francesco è immortalato con il teschio in mano, chiuso in un saio castigato e lacero. Penso ancor più alla tela del Barocci recentemente esposta a una mostra sul santo che ritrae san Francesco in preghiera. Sullo sfondo l'artista dipinge il paesaggio aspro della Verna, monte che il santo aveva ricevuto in dono nella città di San Leo dal conte Orlando Cattani da Chiusi. Era l'8 maggio 1213 quando le parole di Francesco: «Tant'è il bene che m'aspetto ch'ogni pena m'è diletto» trafissero il cuore del conte spingendolo a privarsi del monte per donarlo al frate di Assisi. Il Barocci ci regala un Francesco dagli occhi vivissimi ed estatici tutti rivolti al crocifisso. Un libro di preghiera fa bella mostra di sé in primo piano, mentre silenziosamente nei palmi del canto s'imprimono le piaghe del Salvatore. Mi domando cosa abbia in comune questo santo con un movimento politico che non pare certo meditare ogni giorno la passione del Signore, né digiunare aspramente piangendo per i peccati del popolo. Né tanto meno, credo, vedere alcuno dei suoi gettarsi nel rovo per scongiurare i peccati contro la purezza, o spogliarsi di ogni cosa per sposare Madonna Povertà. Penso piuttosto che Francesco sia un santo fuori moda: vuole portare tutti in paradiso con le indulgenze; propone ai suoi seguaci di offrire penitenze in riparazione dei peccati; predica la misericordia e il perdono a patto che ci si converta e si faccia penitenza; si reca davanti al Sultano parlandogli di Gesù Cristo e invitandolo a cambiare fede… Non si fatica a notare quanto, non solo i grillini, ma anche molti cristiani, abbiano poco in comune con lui. Davvero come ha detto il cardinale Parolin: «Forse mai nessuno potrà dire “mi identifico con san Francesco”: è un modello talmente alto, non irraggiungibile intendo, ma talmente alto che sfugge sempre a qualsiasi identificazione». Se si prendesse sul serio l'esempio di Francesco al quale Cristo chiese di riparare la sua Chiesa, se i politici prendessero sul serio il programma di riparare questa società nella logica di un Vangelo sine glossa, allora forse ci sarebbe più giustizia, più verità e certamente più lavoro per tutti, perché alcuni strapoteri di questo mondo verrebbero a esser minati alle radici. Il Dio Mammona, si sa, è l'unico a informare le strategie economiche, culturali e sociali della nostra società (e non solo la nostra). Così san Francesco combatté tutta la vita – per mezzo della pace e della preghiera – quello spirito di contesa e di menzogna che è l'arma favorita dal Nemico. Volesse il Cielo che si forgino politici di questo calibro, capaci di stare davvero dalla parte del popolo e non dalla parte del potere più forte.
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Da www.avvenire.it del 25 maggio 2017

Nella prima conferenza stampa del neo eletto presidente della Cei tanti i temi toccati: dalla pedofilia all'accoglienza dei profughi fino alla politica e al fine vita. Le nomine.-
«Non sono un calcolatore, mi sento più spinto dall'istinto del cuore che dall'intuito della ragione» sono le prime parole con cui il neo presidente della Cei, il cardinale Gualtiero Bassetti ha esordito di fronte ai giornalisti.
Tanti i temi sottoposti al nuovo presidente della Conferenza episcopale italiana, dall'accoglienza dei profughi alle regole necessarie per attuarla, dalla politica che riguarda il bene comune alla pedofilia, definita «un crimine enorme», di fronte a cui «la Chiesa sta facendo tutto il possibile» fino alla difesa della vita. Non è mancato un accenno alla formazione spirituale e umanistica del cardinale Bassetti che deve tutto alla Chiesa fiorentina e a testimoni di fede come don Lorenzo Milani e Giorgio La Pira.

Giovani e lavoro

«Guardiamo ai giovani con il cuore di pastori e la prima preoccupazione è che nessuno gli rubi la speranza, perché ci sono tanti lupi.
In alcune regioni c'è il 50% di disoccupazione. Quando tutti sbattono porte in faccia a un ragazzo, quel ragazzo diventa apatico la mancanza di lavoro ai nostri ragazzi toglie la dignità» ha sottolineato cardinale Bassetti, nuovo presidente Cei, nella sua prima conferenza stampa in Vaticano.
«Spesso - ha aggiunto l'arcivescovo di Perugia-Città della Pieve - il nostro grido su problemi della società è stato inascoltato, ma noi continueremo: non possiamo restare inerti davanti ai problemi dei giovani. Questa è una società che emargina e produce scarti.
Lo dice Papa Francesco e ci fa riflettere: non si parla neanche più di ultimi, ma di scarti. Dobbiamo stare attenti a capire cosa produce questi ingranaggi».

Profughi e accoglienza in Europa

«Nei confronti dei profughi il discorso è complesso. Ci sarebbe bisogno di un impegno grande. La Chiesa ha sempre accolto i bisognosi, chi è profugo va accolto. Capisco però che l'Italia fa parte di un contesto più ampio che si chiama Europa e che l'Europa fa parte di un contesto più ampio che si chiama mondo e che da soli siamo impotenti» ha sottolineato il nuovo presidente della Cei. «C'è l'impegno della Chiesa nell'accoglienza, ma anche nel rispetto delle regole necessarie. Mi sembra una cosa molto bella la nostra iniziativa 'Liberi di partire liberi di restare' per la quale sono stati predisposti già 30 milioni. I nostri occhi mai avrebbero avuto vedere il Mediterraneo trasformarsi in una immensa tomba».

Politica e Movimento 5 Stelle

«La Chiesa postconciliare dialoga con tutti, ma sul piano della politica bisogna fare distinzione tra la politica con la 'p' minuscola, quella dei partiti, e la politica con la 'P' maiuscola che riguarda il bene comune - ha spiegato il cardinale Bassetti -. La chiesa vuole impegnarsi fino infondo su questo secondo aspetto».

Pedofilia e impegno della Chiesa

«Purtroppo il problema della pedofilia è veramente preoccupante, ma la Chiesa non sta partendo da zero». Lo ha detto, rispondendo ai giornalisti nella sua prima conferenza stampa, il nuovo presidente della Cei. «Il magistero di Benedetto XVI è stato di una chiarezza totale. Noi vescovi siamo tenuti a metterci in contatto con la Congregazione della fede. La Santa Sede si è assunta l'impegno di stabilire criteri da seguire. Ma il problema non va generalizzato». «La pedofilia - ha aggiunto il presidente della Cei - resta sempre un male. I bambini sono sacri. È un delitto enorme e un crimine grande. E la Chiesa - ha concluso - sta facendo tutto il possibile. Se c'è qualche smagliatura non è colpa di nessuno. Dobbiamo essere molto vigilanti».

Fine vita e sostegno alle famiglie

«La legislazione deve tenere molto più conto del medico, che è vicino, che assiste il malato, e che dovrebbe essere molto più considerato». L'arcivescovo di Perugia-Città della Pieve e presidente della Cei, ha risposto così a una domanda sul fine vita, durante la conferenza stampa di chiusura della 70ª Assemblea della Cei. «Noi, forse, in qualcosa stiamo già mancando», il mea-culpa a proposito dei malati terminali: «Non diamo a queste persone l’assistenza, la vicinanza, l’amicizia, l’affetto di cui avrebbero bisogno». «Conosco famiglie con malati terminali o con la sla – la testimonianza personale – che li sostengono con il loro sorriso». «Finché le persone hanno la percezione di essere un valore per l’altro, è sempre più difficile che arrivi a togliersi la vita, che è un atto estremo».

Amoris laetitia capolavoro di sintesi su matrimonio e famiglia

«L'Amoris laetitia è un capolavoro per la sua sintesi sul matrimonio e la famiglia», ha affermato il cardinale Gualtiero Bassetti, neo presidente della Cei, nella prima conferenza stampa. Con le sue parole Bassetti ha risposto a una domanda sui "dubia" espressi da quattro cardinali circa la riammissione dei divorziati risposati alla comunione, in casi specifici. «In particolare - ha osservato il porporato - nel documento c'è un passaggio che va capito. Non dobbiamo fare l'omologazione che ogni situazione irregolare è peccato mortale. Che non sia così lo dice già il catechismo. Il Papa chiede di verificare la situazione di quella persona, di quella coppia». Dunque l'Amoris laetitia, ha concluso Bassetti, «va presentata come il Papa l'ha scritta. È magistero come gli altri documenti».

Terremoto e ricostruzione

Occorre «accelerare il più possibile gli interventi non tanto per la ricostruzione, che sono complessi, ma per garantire un'abitazione alle persone» è l'appello del presidente della Cei, il cardinale Bassetti, che arriva dall'Umbria, terra colpita dal sisma. Per il porporato occorrono non solo le case prefabbricate ma anche «ambienti pluriuso dove riportare quei segni di religiosità che sono stati tolti dalle macerie e che ora sono conservati altrove. Ora che arriva l'estate quelle sono terre di feste religiose, di processioni. Occorre favorire questo, altrimenti si perde l'identità di un popolo».

Il grazie ai vescovi e al Papa

«Ringrazio - ha affermato il cardinale Bassetti - per l'affetto i vescovi e il Papa che ho incontrato ieri dopo aver appreso la notizia. Mi sembra - ha continuato il presidente della Cei - di essere il piccolo Davide nell'armatura indossata per sfidare Golia. Dovette toglierla perché non ce la faceva a portarla. Poi ha raccolto quelle 5 pietre con cui ha battuto il gigante».
Bassetti ha ricordato anche l'incontro del Papa con i vescovi in apertura dei lavori dell'Assemblea generale della Cei, lunedì scorso. "Il Papa - ha sottolineato il neo presidente della Cei - ci ha parlato con grande libertà per ben due ore e mezzo, dimostrando una pazienza e fraternità immensa. Ma rileggendo il discorso ho colto il richiamo che ci ha fatto alla conversione pastorale della Chiesa. Non si tratta di fare qualcosa di nuovo. Mentalità e cuore ce li abbiamo, ma ci vogliono le mani».

Nomine

Alcune nomine sono arrivate dal Consiglio Permanente della Cei che si è riunito a Roma durante i lavori dell'Assemblea Generale dei vescovi italiani. È stato eletto monsignor Antonino Raspanti, vescovo di Acireale, nuovo vicepresidente della Cei per il Sud Italia. Don Giovanni De Robertis il nuovo direttore generale della Fondazione Migrantes. Sostituisce monsignor Gian Carlo Perego, chiamato, lo scorso 15 febbraio, da papa Francesco a guidare la diocesi di Ferrara-Comacchio.
Matteo Truffelli è stato confermato presidente nazionale dell'Azione Cattolica Italiana per il triennio 2017-20.
da www.avvenire.it
@ Riproduzione Riservata del 25 maggio 2017

di Vanna Iori
Caro direttore
conoscenti, non legati da un’amicizia vera, e accomunati da un’esperienza infelice: l’abbandono della scuola in anticipo. Dietro l’omicidio di Matteo Barbalinardo, il ragazzo di 17 anni ucciso a coltellate a Matera da un suo coetaneo, si cela il disagio di una generazione, quella degli adolescenti, che oggi vive una fase di nuova e preoccupante escalation. La scala valoriale si è capovolta e la lite da cui è scaturita l’aggressione da parte del ragazzo omicida, secondo quanto ricostruito finora dagli inquirenti, è da ricondurre a pochi euro: un litigio per della droga finito male.
L’interrogativo è più che immediato: quanto vale una vita oggi nell’era del cyber dilagante, delle nuove droghe che creano dipendenza, alienazione e morte, ma anche dello spaesamento che vivono le agenzie educative tradizionali, dalla scuola alla famiglia, nell’affrontare le sfide dell’oggi? Pochi euro. La risposta, sommessa, arriva da questa vicenda, che purtroppo non è l’unica a puntellare oggi il disagio adolescenziale e l’assenza di coesione sociale. Sul fenomeno del 'Blue Whale challenge', il gioco di ruolo che coinvolge i ragazzi in 50 prove di 'coraggio' in 50 giorni, l’ultima delle quali è togliersi la vita, indaga la polizia italiana e c’è più di un indizio che confermerebbe la veridicità di un dramma nel dramma. Un altro indizio di un malessere dilagante. La storia di Matteo è una storia di solitudine e, allo stesso tempo, di incapacità di accorgersi che un suo coetaneo potesse pensare che la sua vita potesse valere qualche euro.
Dove sono le famiglie di questi ragazzi? Perché gli adulti sono assenti, distratti, smarriti, incapaci di interpretare il turbamento dei propri figli? Non sono quesiti accusatori perché a questa storia non bisogna guardare con gli occhi macchiati di rabbia e alla ricerca del capro espiatorio. Questa storia racconta il dramma di una generazione, quella degli adolescenti, ma anche e forse soprattutto il fallimento della generazione di quei padri e di quelle madri che oggi non trovano il modo per parlare con i propri figli, per confrontarsi, per educarli, per trasmettere regole e valori.
Ma per fare questo occorre avere tempo e volontà di affrontare conflitti, discussioni, confronti difficili e scomodi. Lasciar perdere non significa educare. Spesso si apre la porta allo sbandamento di chi non sa quale direzione imboccare. E i genitori la direzione devono indicarla. L’adolescenza è per definizione l’età della ribellione, ma la società post moderna nella quale viviamo ha amplificato i pericoli che i giovani d’oggi vivono. Soli e solitari. Persi ore e ore dentro uno smartphone. Sempre connessi eppure in preda a emozioni eccessive, distorte. L’età adolescenziale di oggi non è quella di vent’anni fa.
Non è nemmeno più quella di dieci anni fa. Ecco perché ritornare a parlare di coesione sociale, oggi, è un imperativo che coinvolge tutti: scuola, famiglia, mondo dello sport, Chiesa, e più in generale tutte le agenzie educative. Perché di fronte a questa escalation di violenza e di solitudine occorre agire. Anche per onorare la memoria di Matteo e nessuno debba più perdere la propria vita per pochi soldi.
da www.avvenire.it
@ Riproduzione Riservata del 24 maggio 2017

di Lucia Bellaspiga        
«Il medico senza capirmi mi ha subito certificato l’interruzione di gravidanza». Violata la legge 194. Bimbo e mamma accolti in una famiglia veneta con tre figli.-
Sul divano i tre bambini biondi giocano con un bambolotto, riccio di capelli e scuro di pelle. Ha la bocca bianca di latte e gli occhi chiusi nel sonno ignaro dei giusti. Sua mamma, Juli, 22 anni, nigeriana, lo guarda con protezione, sa bene quanto è stata vicina a perderlo. «Benedetto», sussurra per non svegliarlo, ed è insieme un nome e un’invocazione, «l’ho chiamato Blessed, Benedetto». Perché quel figlio è vivo solo grazie al fatto che lei non aveva gli spiccioli per un treno verso il capoluogo... Per spiegarcelo, estrae dalla borsa una carta: poche righe manoscritte, un timbro dell’Asl, la firma scarabocchiata da un medico (donna) che aveva fretta. Con rapidità si può decidere della vita e della morte altrui: 'Gravida alla 13° settimana? Data l’incerta datazione e l’assoluta impossibilità da lei riferita di portare avanti la gravidanza, invio presso la ginecologia per la procedura di IVG', interruzione volontaria di gravidanza.
La legge 194 in realtà prevede incontri con psicologi e assistenti sociali, rimozione delle cause che hanno indotto la donna a rinunciare al figlio, accertamento di gravissimi rischi per la salute della madre o del bambino, senza i quali l’aborto non è consentito... Niente di tutto questo, anzi: la stessa penna frettolosa di medico ha tracciato una riga sulla dicitura prevista per legge – 'La signora viene invitata a soprassedere per 7 giorni' – e l’ha corretta con la condanna definitiva: 'invio presso la ginecologia per la procedura...'. Un timbro e Blessed usciva dal mondo, vista 'l’assoluta impossibilità' di vivere. E poco importa che i termini di legge (12 settimane) fossero scaduti. Solo che Juli al Consultorio si era sì rivolta per 'l’assoluta impossibilità', ma di farcela da sola: «Ero spaventata, sola, irregolare, senza documenti. I nigeriani che mi avevano accolta, quando hanno saputo che aspettavo un bambino mi hanno buttata fuori. Ho chiesto aiuto al Consultorio».
Ed è su questa parola, aiuto, che occorre intendersi. Invece Juli e la frettolosa dottoressa parlano due lingue diverse, e non solo nell’idioma. «Io non so l’italiano e lei non capiva il mio inglese – continua Juli –. Ho detto di aiutarmi con la gravidanza, la dottoressa mi faceva domande in italiano. Mi ha fatto firmare e mi ha indicato dove andare, un ospedale in un’altra città. Non avevo i soldi e non sono andata». Solo oggi le è chiaro cos’ha rischiato: «Io chiedere di abortire? Assolutamente mai», dice con veemenza, «I was looking for a help» ... E così resta sola, Juli, con la pancia che cresce insieme all’angoscia.
Finché l’associazione Papa Giovanni XXIII la intercetta e lancia l’allarme: chi può accogliere una madre in attesa? «Da settimane segnalavano la presenza di una giovane mamma in strada, alla fine l’abbiamo ospitata noi, anche se avevamo tre bambini», spiegano Mariaelena e Marco, giornalista lui, ingegnere lei. Siamo nel laborioso Nord-Est, trop- po spesso tacciato di razzismo. È con loro che Juli ha vissuto serena gli ultimi mesi di gravidanza (rimosse d’un colpo tutte le cause che secondo la 194 dovrebbe rimuovere lo Stato), ed è qui che Blessed un mese fa ha trovato il suo posto nel mondo, tra Alice, 5 anni, Francesco, 3, Davide, 8 mesi. «Non tutto è semplice – ammette Marco – le mentalità sono diverse, Juli per lavare il bambino bolle l’acqua come fosse in Africa, e non sa usare gli elettrodomestici, tant’è che ci ha bruciato il forno, ma che importa?». Blessed e Davide succhiano il latte in contemporanea e insieme sono stati battezzati una settimana fa.
«Accoglierli ci aiuta a crescere come Chiesa nel condividere la richiesta di aiuto del povero, modifica la nostra vita uniformandola al Vangelo, ed è bello ritrovarsi negli atti degli Apostoli fra le modalità di vita delle prime comunità cristiane, come se fossero scritti per noi oggi». La loro presenza in famiglia è un regalo grande per i loro figli, «che crescono in un mondo migliore, diverso e possibile già oggi».
Un giorno diventando grandi scopriranno che Juli ha rischiato la vita nel deserto e sul mare, per avere quello che per loro è normale... «Provo rabbia per la superficialità con cui le è stato fatto firmare, in italiano, un certificato d’aborto e mi domando se sia questa la prassi con le straniere incinte che si rivolgono agli ospedali italiani in cerca di aiuto... Ora vorrei portare a quel medico il bimbo e una preghiera: se ti capita ancora, informa la mamma che far nascere un bambino in anonimato è possibile. O che ci sono famiglie pronte ad accoglierla come fosse una figlia».
da www.avvenire.it
@Riproduzione Riservata del 24 maggio 2017
 
 
 
 

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