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CAV - Centro di Accoglienza alla Vita Vogherese ODV

Via Mentana n. 43
27058 Voghera (PV)
Tel: 349 4026282
email: cavvoghera@virgilio.it

di Luca Bottari (nella foto con figlia)
Ho visto la tua testa sbucare fuori e sono nato di nuovo.
La mia seconda nascita, con il cranio sconvolto dal caldo di un’implacabile estate romana, annaspando in un fiume di corposi e irrazionali sentimenti con radici difficili da strappare, con bizzarri ingrossamenti di sangue che confluivano disordinatamente nelle mie vene.
L’amore non era contenibile in queste vene che non sono tornate più alla loro collocazione originale. Quando nasce una figlia, l’amore corregge il nostro corpo e tutti gli affluenti del grande fiume del cuore si ingrossano.
Non ero più uno straniero di passaggio perché i tuoi tre chili di vita mi circondavano e mi sono arreso.
Non mi potrò più concedere il lusso di lasciare questa landa desolata perché qui tu vivrai e tenterai di esser felice. Ci saranno sempre sogni che abbagliano nelle mie notti, ma nulla sarà mai più splendente della luce reale che esce dai tuoi occhi.
Ora mi chiami papà ed intorno ci sono i silenzi ed i rumori di un mondo impazzito che ancora nemmeno io conosco, ma che cercherò di presentarti quando magari sarà più in forma. Vorrei tanto esser l’allenatore di questo mondo per far si che i suoi giocatori non siano sleali con te. Ti accompagnerò fin dove mi sarà concesso ed il nostro contratto d’amore sarà sempre tacitamente rinnovato. Non ci saranno maschere da indossare perché correrò solo per te con lo stesso numero in petto finché avrò fiato e dove non arriverò arriveranno le mie preghiere.
Ora vieni qui e abbracciami.
da www.corriere.it
@Riproduzione Riservata del 07 gennaio 2018

di Annachiara Valle

Nella cappella Sistina il Papa battezza 34 neonati e ricorda ai genitori che il loro primo compito è trasmettere la fede ma questo lo si può fare con il linguaggio familiare della casa.-

Omelia a braccio per la messa nella quale papa Francesco, nella festa del Battesimo del Signore, ha battezzato 34 neonati, 16 bambini e 18 bambine. Nella cappella Sistina Bergoglio ricorda ai genitori che il loro primo compito è trasmettere la fede. «Una cosa che si può fare solo parlando il dialetto dell’amore». Oggi, dice il Papa, « voi portate al battesimo i vostri figli. Questo è il primo passo del primo compito che voi avete: il compito della trasmissione della fede, li portate a ricevere lo Spirito santo per trasmettere la fede, da soli non possiamo, trasmettere la fede è una grazia dello Spirito santo».
Una omelia breve per dire che «la trasmissione della fede soltanto può farsi in dialetto, nel dialetto della famiglia, nel dialetto di papà e mamma, di nonno e nonna, poi verranno i catechisti a sviluppare questa prima trasmissione, con idee, con spiegazioni, ma non dimenticatevi questo: si fa in dialetto e se manca il dialetto, se a casa non si parla tra i genitori quella lingua dell’amore, la trasmissione non è tanto facile, non si potrà fare, non dimenticatevi».
Ma non è solo il dialetto dei genitori, anche i bambini hanno «un proprio dialetto e ci fa bene sentirlo. Adesso tutti stanno zitti», dice Francesco guardando i bambini in braccio ai genitori, «ma è sufficiente che uno dia il tono e poi l’orchestra segue. È il dialetto dei bambini e Gesù ci consiglia di essere come loro, di parlare come loro. Noi non dobbiamo dimenticare questa lingua dei bambini, parlano come possono, ma è la lingua che piace tanto a Gesù. E nelle vostre preghiere siate semplici come loro, dite a Gesù quello che avete nel cuore come lo dicono loro, oggi lo dicono con il pianto».
E così come il dialetto dei genitori aiuta i bambini, anche quello dei bambini aiuta i «genitori a crescere nella fede». Infine, come aveva già fatto gli scorsi anni, invita le mamme ad allattare i bambini se piangono perché hanno fame: «Allattateli senza paura, dategli da mangiare» conclude, «anche questo è un linguaggio d’amore».
da www.famigliacristiana.it
@Riproduzione Riservata del 07 gennaio 2018

di Annachiara Valle

Il Papa invita tutti a cercare la data in cui siamo stati battezzati, il giorno in cui Dio ci ha donato lo Spirito santo per aiutarci a camminare e in cui ha perdonato i nostri peccati.-

Ricordare la data del battesimo, la data «del grande perdono». Papa Francesco si affaccia dalla finestra del palazzo apostolico per il tradizionale Angelus. Dopo aver battezzato 34 bambini nella cappella Sistina, ricorda a tutta la piazza l’importanza del battesimo. Spiega l’umiltà di Gesù nel mettersi in fila come tutti gli altri per ricevere il battesimo da Giovanni Battista: «Si trattava di un battesimo di penitenza: quanti vi si accostavano esprimevano il desiderio di essere purificati dai peccati e, con l’aiuto di Dio, si impegnavano a iniziare una nuova vita. Comprendiamo allora la grande umiltà di Gesù, Colui che non aveva peccato, nel mettersi in fila con i penitenti, mescolato fra loro per essere battezzato nelle acque del fiume. Quanta umiltà ha Gesù! E così facendo, Egli ha manifestato ciò che abbiamo celebrato nel Natale: la disponibilità di Gesù a immergersi nel fiume dell’umanità, a prendere su di sé le mancanze e le debolezze degli uomini, a condividere il loro desiderio di liberazione e di superamento di tutto ciò che allontana da Dio e rende estranei i fratelli».
In questo modo Gesù «si è fatto carico di tutti noi, si fa carico di tutti noi, nella vita di tutti i giorni». E, nel momento del battesimo al Giordano «lo Spirito Santo, che aveva operato fin dall’inizio della creazione e aveva guidato Mosè e il popolo nel deserto, ora scende in pienezza su Gesù per dargli la forza di compiere la sua missione nel mondo. È lo Spirito l’artefice del battesimo di Gesù, anche nel nostro battesimo. Lui ci apre gli occhi del cuore alla verità, tutta la verità, ci spinge la nostra vita sul sentiero della carità. Lui è il dono che il Padre ha fatto a ciascuno di noi nel giorno del nostro battesimo». Per questo bisogna ricordare il giorno in cui abbiamo ricevuto questo sacramento, «dobbiamo averla nella memoria, è la data nella quale il Padre ci ha dato lo Spirito santo che ci spinge a camminare». Il Papa ricorda, anche al termine dell’Angelus «il compito a casa, cercare la data del battesimo», la data «del grande perdono».
da www.famigliacristiana.it
@Riproduzione Riservata del 07 gennaio 2018

Redazione Internet

Il medico: «A quest'età è un miracolo». Ha già altre due figlie di 34 e 28 anni.-

TREVISO Una donna di 56 anni ha partorito una bambina, con parto naturale e dopo una gravidanza avvenuta senza procreazione assistita. La donna, già madre di altre due figlie, di 34 e 28 anni, risiede a Casale sul Sile, in provincia di Treviso. La bimba, Beatriz, è nata all'ospedale all'Angelo di Mestre, a fine dicembre, con un peso di oltre 3 chili e gode di ottima salute. Un evento piuttosto raro, soprattutto in riferimento al fatto che la donna è rimasta incinta naturalmente, senza l'ausilio di tecniche di fecondazione assistita. Il compagno della donna, padre della bambina, è un sudamericano più giovane della compagna di 17 anni. La donna credeva di essere da tempo in menopausa. Il medico che l'ha seguita: «Nascita da record, è un miracolo».
da www.corriere.it
@Riproduzione Riservata del 05 gennaio 2018

di Giacomo Bertone
La festa dalle 14.30 in via dei Mille: «Qui da noi le persone si ritrovano con l’obiettivo di ridare vita al quartiere».-

PAVIA. Quando bambini e anziani trascorrono del tempo insieme ne traggono entrambi giovamento. È questa forte convinzione che ha portato l’Aps Borgo Ticino a organizzare per venerdì 5 gennaio alle 14.30 una festa in onore della Befana invitando soci e bambini del quartiere. «L’appuntamento è nella nostra sede, in via dei Mille 130, per “Merendando con la Befana” – spiega Liala Marchetti, la presidente –, un pomeriggio nel quale i bambini potranno preparare i biscotti della festa, partecipare a laboratori speciali e poi fare una dolce in compagnia delle fate. Sì, la Befana non potrà esserci perché non è ancora il suo giorno, però manderà alcune sue aiutanti di fiducia per far giocare i bambini».

L’Aps Borgo Ticino, associazioni di promozione sociale iscritta all'Ancescao, è nata con l’intento di combattere la solitudine: ogni settimana, il mercoledì e la domenica, gli anziani si trovano nella sede dell’Aps per ballare, ma anche per giocare a carte, leggere i giornali e chiacchierare. Da tempo l’Aps Borgo Ticino collabora con Ains onlus, associazione che svolge attività e progetti rivolti alla sensibilizzazione dell’opinione pubblica sulle situazioni di crescente povertà, emarginazione sociale o emergenze di natura sanitaria in Guatemala. «Vogliamo ridare vita al Borgo – aggiunge Elisabetta Casula Peranis, Ains – questo è un quartiere dove vivono molti anziani, ma ci sono anche numerose famiglie giovani. Non è giusto che debbano spostarsi per trovare iniziative dedicate, speriamo di contribuire a far nascere nuove relazioni fra le persone della zona».

Nella società contemporanea, dominata dal mito dell’efficienza, anziani e bimbi non sono molto considerati: «È uno sbaglio, si perde molto quando non si dà attenzione agli anziani e ai bambini. Gli anziani sanno regalare l’esperienza di una vita vissuta con saggezza e pazienza. I bambini ci aiutano a guardare il mondo con occhi puri, stupendoci ancora per le cose belle. La giornata di oggi vuole essere il primo passo di un percorso che speriamo possa diventare una bella tradizione: anziani e bambini insieme, che si fanno compagnia e si scambiano racconti e risate. Oggi cucineremo insieme, e sarà importante ascoltare i consigli dei nonni. In futuro leggeremo favole e viaggeremo con la fantasia nella storia».

da www.laprovinciapavese.it
@Riproduzione Riservata del 05 gennaio 2018

La Farm, nata tra le colline del Valdarno e gestita dalla Fondazione Oda, accoglie ragazzi con disabilità intellettive gravi che grazie ad un programma riabilitativo si occupano di tutti i lavori di gestione della fattoria. Ad accompagnarli una squadra di educatori, oss e medici.-

È stata inaugurata lo scorso luglio la prima Community Farm voluta dalla Fondazione Oda che da anni gestisce diversi servizi a sostegno delle persone con gravi disabilità intellettive. La struttura, un grande podere tra le colline del Valdarno (più precisamente a Reggello), è stata donata da Maria Antonietta Salvucci che per il suo gesto di generosità ha ricevuto la nomina a Commendatore dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana dal presidente della Repubblica Mattarella.

Nella fattoria, gestita dalla Fondazione Oda in collaborazione con Asl Toscana Centro, Regione Toscana e Comune di Reggello, vivono stabilmente 10 ragazzi disabili, mentre altri 15 la frequentano di giorno. A seguirli un team specializzato formato da educatori, oss e infermieri che accompagnano i ragazzi in tutti i momenti della giornata.

La community Farm è infatti un vero e proprio progetto riabilitativo, i ragazzi frequentano diversi laboratori tra cui uno di giardinaggio e uno di attività agricola per imparare a prendersi cura della terra e i suoi frutti. A questi si aggiunge il progetto di “cucina adatta”, dove gli ospiti della struttura imparano a cucinare e conoscere i prodotti coltivati e raccolti. C’è poi chi si occupa della newsletter, che diventa un modo per raccontare il proprio lavoro agli altri e imparare ad utilizzare il pc, chi della raccolta differenziata e chi dell’arredamento, il tutto ovviamente fatto in comunione così da creare anche una rete di rapporti.

La praticità è alla base dell’insegnamento della Farm, tutti i ragazzi imparano ogni giorno qualcosa, ma soprattutto imparano a prendersi cura di se stessi e degli altri. Grazie all’appoggio del territorio, inoltre, sono nati contatti anche con altre aziende locali che hanno invitato i ragazzi della Farm per la vendemmia e la raccolta delle olive. La riabilitazione passa così attraverso il rapporto con la natura e il lavoro, i ragazzi sono in prima linea nella cura e nella crescita della fattoria, vengono responsabilizzati e si inseriscono nel contesto sociale e lavorativo locale.

da www.cittànuova.it
@Riproduzione Riservata del 30 dicembre 2017
 

di Danilo Poggio
Tutte le mattine passa da tre supermercati di Torino e ritira alimenti che altrimenti verrebbero sprecati. Così aiuta 8 famiglie.-
Una bicicletta è progettata per trasportare una persona e non certo decine di chili di cibo. Eppure, la bici della signora Marta ormai ci è abituata, grazie a un cestello davanti al manubrio, una cassetta appoggiata sulla ruota posteriore e un sellino ben appiattito.
Da anni viene caricata quasi come un camioncino e spinta a mano da una donna forte, determinata e che semplicemente ha voglia di fare del bene. Marta ha 79 anni (saranno 80 a luglio) e ogni mattina, insieme all’inseparabile due ruote di un bel colore verde acceso, percorre il consueto itinerario nel quartiere Santa Rita di Torino, la zona in cui vive da molti anni. Intorno alle 9 passa davanti a tre diversi supermercati e, guardando nei cassonetti dell’immondizia all’esterno, cerca ciò che viene quotidianamente gettato, ma che resta ancora perfettamente commestibile. Raccoglie tutto il possibile e se ne va a casa con la sua bicicletta smisuratamente carica, con oltre 40 chilogrammi di generi alimentari ogni giorno.
«È incredibile – racconta – quanto spreco ci sia ancora oggi. Viene gettato il cibo prossimo alla scadenza oppure quello contenuto in confezioni non più perfette, magari a causa di un urto durante il trasporto. In questo periodo, ad esempio, ci sono le arance: se una è andata a male, buttano via intero l’intero sacchetto da 5 chili. È vergognoso». Ma la signora Marta è tenace: di origine contadina, per molti anni ha intervistato la gente in tutto il Piemonte per le indagini di mercato. Oggi è in pensione, vive con il marito, ha un figlio medico e una figlia biologa e tre nipoti iscritti a Medicina.
Non si vergogna, però, a rovistare nella spazzatura, anche se viene guardata continuamente con sospetto dai passanti e di certo senza particolare simpatia neppure dai responsabili dei supermercati: «Non mi interessa. Lo faccio perché so che ci sono persone che hanno bisogno e che mi aspettano». Tre volte alla settimana, infatti, carica la sua auto di tutte le provviste raccolte e va a distribuirle a chi ha bisogno a Casalborgone, un paese di duemila persone a circa 30 chilometri da Torino.
«Ho iniziato quasi per caso, portando qualche genere alimentare a una famiglia che, a causa della crisi economica, si era ritrovata a perdere tutto. In poco tempo, poi, il giro si è allargato e continuavano ad arrivarmi segnalazioni di nuove situazioni di disagio. Adesso seguo 8 famiglie, per un totale di oltre venti persone. Mi accolgono sempre a braccia aperte e con grande dignità. Non mi hanno mai chiesto nulla e riescono a non sprecare mai nulla. Con la farina si fanno il pane, con il latte producono da soli le formaggette. Ciò che avanza (quando avanza) viene portato in una sorta di scuola popolare che ospita gratuitamente anche a dormire persone in grave indigenza».
A scoprire il motivo della frenetica attività della signora Marta è stato un diacono torinese, Benito Cutellè, della parrocchia Natale del Signore, che racconta: «Quando l’ho vista, affaticata nel trascinare la sua bici piena di scatolami e borse, l’ho scambiata per un’indigente e l’ho invitata a venire nella nostra parrocchia, dove avremmo provveduto a darle ciò che le serviva attraverso la San Vincenzo. Mi sbagliavo: non stava rovistando nei cassonetti per se stessa, ma per chi non ha nulla da mangiare. Sono rimasto davvero sorpreso. Alla sua età presta con estrema modestia un servizio importante a favore dei fratelli più poveri. E il suo rammarico è che, quando lei sarà troppo stanca, non ci sia più nessuno ad aiutarli».
Per ora, però, la signora Marta è ancora energica e molto risoluta: «Soprattutto i politici e i decisori pubblici dovrebbero rendersi conto della situazione reale e di quanta povertà esista ancora oggi. C’è chi veste alla moda e mangia a crepapelle e chi non ha più nulla. Tutti dovremmo darci da fare e, invece, siamo troppo insensibili ai bisogni del prossimo».
da www.avvenire.it
@Riproduzione Riservata del 30 dicembre 2017

di Umberto Folena, inviato a Sotto il Monte (Bergamo)
Stasera, domenica 31 dicembre, a Sotto il Monte il 50° appuntamento nazionale con lo sguardo rivolto a uomini e donne «migranti e rifugiati».-
Beato chi ha memoria. Non la nostalgia improduttiva, ma i ricordi che sono come semi deposti sulla terra buona. I ragazzi di Pax Christi, riuniti da ieri mattina nel salone del Pime a Sotto il Monte per il convegno nazionale che precede la Marcia di stasera, domenica 31 dicembre, la memoria l’hanno bella fresca. Ragazzi… L’età media è quella chi più può vantare molti ottimi ricordi, ma la verve è da giovanotti.
Sul piedistallo della memoria pongono tre fari: san Giovanni XXIII, il Papa della Pacem in terris; David Maria Turoldo, il sacerdote «servo di Maria» che a lungo soggiornò a Sotto il Monte; e don Tonino Bello (il compianto vescovo presidente di Pax Christi), che dopo aver incontrato Turoldo nel 1985 lo definì "leone incatenato", dalla «grande passione per Santa Madre Chiesa», venendone ricambiato con un «grazie del tuo coraggio, caro fratello vescovo».
In comune avevano «la stessa passione per il Vangelo della pace», ricorda Sergio Paronetto, presidente del Centro studi di Pax Christi. Prima di lui Roncalli, Turoldo e Bello erano stati definiti «i tre profeti legati ciascuno a tre parole: riconciliazione, resistenza e audacia» da Giuliana Mastropasqua, vicepresidente di Pax Christi. E prima ancora era stato il presidente, il vescovo Giovanni Ricchiuti, a parlare di Pax Christi come «popolo della pace che semina speranza». Seminatori. Di un raccolto impossibile? I soliti ingenui "pacifisti"? «Se nulla è impossibile a Dio, possibile è il dono della pace» replica Ricchiuti. Chi ha fede? Chi crede nella pace o chi deride chi ci crede?
In realtà, ci sarebbe almeno un quarto faro: papa Francesco. E, tra i tanti, il suo discorso del primo ottobre scorso agli studenti bolognesi: «Aiutiamoci a "ripudiare la guerra", come afferma la Costituzione italiana, a intraprendere vie di nonviolenza e percorsi di giustizia». È Francesco stesso a evocare un quinto faro, il cardinale Lercaro, che disse: «La Chiesa non può essere neutrale di fronte al male, da qualunque parte esso venga: la sua vita non è la neutralità ma la giustizia».
Paronetto parla chiaro ai 120 soci di Pax Christi che affollano la sala del Pime. Ci sono «contraddizioni dentro la Chiesa, il cui vero tabù è il disarmo, la produzione e il commercio delle armi, mai affrontato in modo solenne». Evoca Bello che diceva: «Il vero dramma della Chiesa è non aver saputo indossare la nonviolenza come unico abito». Non nasconde il "dispetto" per essersi ritrovato san Giovanni XXIII patrono dell’Esercito. Le sue sono parole aspre: «È stata una cattura corporativa e burocratica del Papa». Forse si vuole ammorbidire il magistero di Francesco, ritenuto troppo audace? Comunque il problema è l’Esercito stesso, che dovrebbe essere, secondo Paronetto, una vera forza di pace, dotata di armamento esclusivamente difensivo, posto sotto la guida dell’Onu. Profezia a volte potrebbe far rima con utopia, ma per chi ha fede nulla è impossibile a Dio.
Il vescovo Luigi Bettazzi, primo storico presidente di Pax Christi, cavalca i suoi 92 anni con la consueta brillante ironia, forse solo un poco più morbida rispetto al passato. Giuliana Bonino, già segretaria nazionale, perora la causa nobile della messa al bando delle armi nucleari, creando un vero e proprio movimento d’opinione. Migranti e rifugiati: Betta Tusset e don Nandino Capovilla presentano la campagna «Sulle soglie senza frontiere», con le quattro parole del Messaggio del Papa per la Giornata della pace (accogliere, proteggere, promuovere e integrare), da portare nelle parrocchie avendo come base i 20 punti di azione pastorale indicati dalla Santa Sede (il filmato "Fuori onda" è disponibile su YouTube). Don Virginio Colmegna racconta i suoi 15 anni a Casa Carità a Milano, con il terribile carico di sofferenza («su 100 ospiti, 60 devono ricorrere ai servizi psichiatrici»), e denuncia la bieca manovra di chi «scarica la colpa della paura su chi fa solidarietà». Il giornalista e scrittore Daniele Biella invita: «Tutti a Lesbo», dove 150 isolani hanno fatto più e prima dei governi. Avverte: «Il giusto a volte deve andare al di là della legge per salvare delle vite». Sono tempi strani, in cui si può incorrere nel «reato di solidarietà».
da www.avvenire.it
@Riproduzione Riservata del 30 dicembre 2017

di Sergio Paronetto - Presidente Centro studi di Pax Christi
Il messaggio di papa Francesco per la Giornata mondiale della pace del 1 gennaio 2018, «Migranti e rifugiati: uomini e donne in cerca di pace», va controcorrente. È un testo coraggioso.-
Caro direttore,
il messaggio di papa Francesco per la Giornata mondiale della pace del 1 gennaio 2018, «Migranti e rifugiati: uomini e donne in cerca di pace», va controcorrente. È un testo coraggioso. In un periodo carico di pregiudizi e volgarità, in un contesto ossessionato da identità chiuse che alimentano paure, che giudicano pericolosi gli insegnanti attivi nell’intercultura perché spiegano la Dichiarazione universale dei diritti umani, che bloccano il riconoscimento di cittadinanza a bambini nati in Italia e frequentanti le nostre scuole, che minacciano chi lavora per l’accoglienza esibendo a volte gesti e scritte neonaziste, il messaggio del Papa è decisamente alternativo alle logiche del nemico, dello scarto e dell’indifferenza. Alternativo al sistema Caino, al sistema Erode e al sistema Pilato.
Il messaggio coinvolge tutti, riguarda il futuro di tutti. Al suo centro vibrano la cura della casa comune e la difesa della dignità umana di chi arriva e di chi può accogliere con prudenza responsabile, con «politiche di accoglienza fino al massimo dei 'limiti consentiti dal bene comune rettamente inteso'». Quest’ultima frase è ricavata dalla Pacem in terris (57) dove «il bene comune universale solleva problemi complessi, gravissimi, estremamente urgenti, specialmente per ciò che riguarda la sicurezza e la pace mondiale» (69,70). Esso – scriveva papa Giovanni XXIII – è frutto di un «compito immenso: il compito di ricomporre i rapporti della convivenza nella verità, nella giustizia, nell’amore, nella libertà» (87, 18, 78). Un «obiettivo desideratissimo» che è «reclamato dalla retta ragione» e «della più alta utilità» (61, 62). Sulla scia di Giovanni XXIII, papa Francesco ci offre il progetto di una nuova cittadinanza. Il suo è un invito a resistere e a respingere ogni forma di xenofobia e di razzismo, a ricostruire la grammatica della convivenza, ad attivare la capacità di accogliere, proteggere, promuovere e integrare. Il «necessario realismo» della politica non può diventare «una resa al cinismo e alla globalizzazione dell’indifferenza».
Tra le immagini del Papa (popoli in fuga; reticolati e muri) tre mi sembrano quelle più significative: lo sguardo, le mani, la città cantiere. Lo sguardo contemplativo e lungimirante, sapiente e attivo, fiducioso nella possibilità di trasformare difficoltà avvertite come «minaccia» in «opportunità per costruire un futuro di pace». Uno sguardo capace di «riconoscere i germogli di pace che stanno spuntando». Le mani delle persone che arrivano e di quelle che accolgono. L’idea che nessuno giunge a mani vuote e che ogni essere umano ha mani che portano, ricevono, si scambiano doni e «si prendono cura della loro crescita». La città, spesso impaurita e divisa, dove Dio abita e dove si può realizzare «la promessa della pace», dove si può alimentare «un sogno condiviso», quello di diventare un cantiere operoso di pace. Insomma, non si può dire, come ripetono Trump e altri, che «emigrazione è un privilegio».
L’ impegno a favore di migranti e rifugiati è un’applicazione di principi che costituiscono un patrimonio comune di umanità, codificati nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e radicati nella nativa costituzione relazionale dell’essere umano. Per questi motivi, sul tema migranti, come su ambiente, armamenti e guerre, il Dicastero vaticano per lo sviluppo umano integrale chiama i credenti a «rendere il nostro mondo più umano» (papa Francesco, Messaggio Urbi et orbi di Natale) contrastando decisioni escludenti, portatrici solo di dolore per «uomini e donne in cerca di pace».
da www.avvenire.it
@Riproduzione Riservata del 30 dicembre 2017

Di  JENNY FAVARIN
Gratuità, bella e fragile: per assaporarla è necessario vederla in opera, conoscerla nel vissuto concreto delle persone. Suor Jenny ci regala un pezzo della sua vita, nel laboratorio di arte-terapia, facendoci gustare l’essenza della creatività nella reciprocità. Tratto da Unità e Carismi.-

Sono le 11.15 di un martedì caldissimo del luglio romano, e desidero andare alla messa a San Pietro alle 12, ma la fila per il metal detector è chilometrica, tanto che mi assale il dubbio di essere in quella sbagliata. La speranza che ci sia una corsia preferenziale mi infonde il coraggio di correre dalla guardia e spiegarle candidamente la mia intenzione; questa, come tutta risposta, ha una sonora risata e un «se vuoi arrivare a messa puntuale devi iniziare la fila alle 7». Non ci sono se e ma.

Me ne vado, arrabbiata e scoraggiata. A testa bassa inforco a caso una delle tante stradine che circondano San Pietro, trascinandomi domande perplesse circa l’incredulità su quanto appena vissuto: «Possibile che quella guardia sia stata così sbrigativa e spersonalizzante con me e mi abbia pure derisa? Nemmeno a messa si può più andare?».

Galleggio in questi pensieri quando una voce lontana riesce a bucare l’ovattamento in cui mi trovo, facendomi arrivare al cervello una frase di senso compiuto: «Ho fame, mi aiuti?». In due secondi realizzo che il suono proviene dalla bocca di un uomo seduto sul marciapiede davanti a un bar, con la mano aperta protesa verso me.

C’è tanta gente che mi passa accanto schivandomi, mentre in quella zona fortunatamente pedonale rimango impalata in mezzo alla strada a guardarlo, cercando di fare spazio a qualcosa di nuovo, nettamente in contrasto con la mia indignazione e il mio sconforto. Istintivamente gli domando cosa voglia mangiare, in modo da poterglielo comprare, e la risposta che mi arriva è un imbarazzato «non lo so, scegli tu».

Trovo profondamente ingiusto dover scegliere al posto suo e, improvvisamente, una spinta da dentro, senza che io ne sia consapevole, mi fa rispondere: «Entra in questo bar con me, così scegli tu quello che ti piace». Da imbarazzato, l’uomo si fa incredulo, guardandosi intorno quasi a cercare l’inganno, e chiedendomi se ne sono davvero sicura o se si tratta di uno scherzo. Si alza, mi si avvicina e tenendo la mano mi dice il suo nome. Gli rispondo con una stretta e mi presento a mia volta. In piedi, entrambi, alla stessa altezza di sguardi.

Solo una volta varcata la soglia del bar, mi rendo conto che la mia proposta, di origine istintiva, non è poi così all’ordine del giorno. Mi aiutano a capirlo gli sguardi della gente seduta ai tavoli o in fila alla cassa, che si appuntano guardinghi sugli abiti logori e sgualciti del mio compagno appena incontrato.

È nella fila alla cassa che quell’uomo, di nome Fabio, a un certo punto mi chiede: «Ma tu non hai fame?». Non ci pensavo alla mia fame, nonostante il buco allo stomaco. Al mio sì, dopo cinque minuti ci ritroviamo seduti a un tavolo, a pranzare insieme. Per tutto il tempo Fabio non fa che ripetermi, incredibilmente gioioso, che non gli era mai successa una cosa del genere, in sei mesi in cui si trovava per strada. Sono piena di gioia anche io. Ci salutiamo ringraziandoci reciprocamente.

Da tre anni, il giovedì pomeriggio, vivo, per certi versi, un’esperienza simile a quella appena raccontata, in un centro diurno per persone senza fissa dimora o con disagi di altra entità, tenuto da noi francescane dei poveri. L’unica differenza è che non ci si siede a tavola per mangiare, ma per dipingere e disegnare. Questo centro non risponde solo ai bisogni essenziali di questi “ultimi” ma, secondo l’intuizione geniale e oserei dire anche evangelica di una di noi, risponde anche a quello troppo spesso frustrato e messo da parte a causa delle condizioni di stenti in cui vivono, ovvero al bisogno di entrare in contatto con la parte più autentica di sé, unica, irripetibile e originale, che fa parte di quell’identità propria strettamente connessa alla dignità personale.

Indimenticabile la prima volta che, varcando la porta del centro, con le mani piene di materiali artistici e insicurezze sul senso di questo laboratorio di arte-terapia, non faccio a tempo a balbettare il mio nome che immediatamente mi sento dire, proprio da coloro che avrei dovuto aiutare: «Benvenuta, accomodati, ti stavamo aspettando».

Dopo i primi incontri laboratoriali, in cui il mio obiettivo s’incentrava esclusivamente sul sostenere il processo artistico con le mie competenze di arte-terapeuta, un utente condivide con me la sua gioia di poter scegliere come dare forma, creare e avere uno spazio di sperimentazione artistica, e mi chiede: «Suor Jenny, tu non vuoi disegnare? Perché non crei anche tu qui con noi?». Da quella domanda ho cominciato, con qualche piccolo strappo alla regola, a sedermi, alla stessa altezza di sguardi, e a tuffarmi nello stesso clima creativo. Ne è risultato uno spazio franco in cui ciascuno di noi crea e attinge idee, spunti, me compresa.

Tu non hai fame? Tu non desideri disegnare? Gratuità, qualcosa di estremamente bello e fragile che non ha nulla a che fare con la logica del calcolo, dello scambio e degli interessi, in cui stranamente, se doni, non perdi. Anzi, in cui più dai, più hai. Gratuità, una parola estranea alla mercificazione e all’arrivare primi. Gratuità, una dimensione composta da tempo e spazio, che non chiede nulla se non di essere se stessi. Gratuità che fa rima con creatività, reciprocità, fondata sulla persona, su dei profili viventi precisi e inequivocabili.

Ripenso alle 11.15 di quel martedì di un caldissimo luglio e mi accorgo che alla messa alla quale Dio mi stava attendendo forse, in qualche modo, ci sono andata. Non era alle 12, non era a San Pietro, ma in un bar di una stradina nascosta, con uno dei tanti fratelli mai incontrati che mi dava il benvenuto gratuitamente, mi faceva accomodare, e che mi ricordava che… più dai, più hai.

da www.cittànuova.it
@Riproduzione Riservata del 28 dicembre 2017

CAV Voghera

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