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CAV - Centro di Accoglienza alla Vita Vogherese ODV

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di Stefania Cecchetti

da www.chiesadimilano.it
@Riproduzione Riservata del 24 aprile 2024

Il vicepresidente del Centro ambrosiano di aiuto alla vita interviene sull'emendamento alla legge sull'aborto inserito nelle nuove disposizioni per l'attuazione del Pnrr, che nei giorni scorsi ha suscitato numerose polemiche.-

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Sono state appena approvate dal Senato le nuove disposizioni per l’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), all’interno delle quali si trova l’emendamento alla legge 194, sulla presenza nei consultori delle associazioni pro-vita, che ha causato forti polemiche nei giorni scorsi. Ne abbiamo parlato con Giulio Boati, vicepresidente del Centro ambrosiano di aiuto alla vita.

Qualcuno ha parlato di attacco alla legge 194. Lei cosa ne pensa?
Ho trovato poca felice l’idea di inserire questo emendamento nelle disposizioni per l’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza, che poco ha a che fare con la legge 194, tanto che dall’opinione pubblica, soprattutto quella laica, questa mossa è stata avvertita come una specie di “colpo di mano”. Credo invece che questi temi meriterebbero un dibattito ben più attento e approfondito

Da che punto di vista?
Per esempio andrebbe approfondito il discorso sulla reale applicazione della legge 194, secondo cui è previsto che quando una donna si presenta, nella maggior parte dei casi in un consultorio, per la richiesta di un certificato per abortire, non ci si limiti a una datazione ginecologica dell’età del feto, ma le vengano presentate tutte le possibilità di scelta, in modo che la sua decisione sia effettivamente libera e non dettata solo da ragioni economiche, dalla paura o da motivi di altro genere. Infatti la legge 194 prevede che alla donna sia fornito un adeguato sostegno psicologico e un secondo appuntamento a distanza di 15 giorni. Io ho qualche dubbio che questo avvenga davvero nella maggior parte dei casi.
Posso dire invece con certezza che questo è lo stile con cui cerchiamo di lavorare noi e le associazioni come la nostra: non tanto fare opera di dissuasione, quanto cercare di offrire un aiuto alla donna che si trova in difficoltà. Lasciandola comunque libera di decidere se, nonostante le possibilità di aiuto proposte, vuole comunque abortire.
Da diversi anni siamo presenti con uno sportello all’Ospedale San Carlo di Milano. Ci aveva chiamati il professor Buscaglia, uno dei medici abortisti della prima ora, perché lui era convinto che, senza avere davanti tutte le possibilità di scelta, una donna non fosse veramente in grado di decidere liberamente.

Di cosa ha più bisogno una donna in difficoltà a causa di una gravidanza inattesa?
La statistica è enorme, non c’è una regola precisa in queste cose, ma direi che la cosa che le donne chiedono di più è di non sentirsi sole, di sentire che la loro gravidanza non è un affare privato. Purtroppo, invece, la maternità è vissuta per il 90% dei casi in solitudine, anche in situazioni non problematiche.
Ogni donna deve cambiare i suoi ritmi di vita, non può più fare le cose che faceva prima, si allontana dalle amicizie di sempre, dal suo lavoro. Questo può generare una serie di problematiche, anche psicologiche, a cui la nostra società non è in grado di rispondere. Quello di cui ci sarebbe bisogno è una vicinanza vera, una serie di reti, anche culturali, che sostengano una mamma. Per dirla con gli africani, servirebbe un intero villaggio per crescere un bambino, perché i figli non sono solo affare delle donne, sono una questione sociale.

Di contro invece, ogni dibattito sulla legge 194 è un affare non solo sociale, ma addirittura politico, come dimostrano le polemiche di questi giorni…
Sì, ma è un dibattito ideologico, non sostanziale, che si riaccende davanti a casi sconcertanti, come il neonato lasciato nel cassonetto, ma che poi non affronta davvero le questioni. Per farlo è necessario impostare un dialogo serio, che non si nutra solo di slogan vecchi di anni. Ma se non riusciamo nemmeno a mettere in piazza a Milano una statua che raffigura una maternità direi che su questi temi siamo proprio lontani da un dibattito sereno.

da www.diocesitortona.it
@Riproduzione Riservata del 26 aprile 2024

Anche a Tortona ieri mattina si è svolta, presso il monumento in corso Leoniero, la tradizionale cerimonia del 25 aprile, organizzata dal Comune insieme all’Anpi Tortona, dedicata quest’anno al ruolo delle donne nella Resistenza sul territorio. 

 Prima la messa in duomo, officiata dal vescovo Guido Marino, poi il corteo che percorrendo corso Leoniero, alle 10.15 e la deposizione della corona di alloro al monumento ai Caduti, con l'esibizione musicale del coro dei bambini della Civica Accademia "Lorenzo Perosi”.

 A seguire i saluti istituzionali del Sindaco Federico Chiodi, che, non potendo per le nuove normi pronunciare in periodo elettorale nemmeno discorsi istituzionali, ha letto un messaggio del prefetto di Alessandria. Poi gli interventi delle donne, su cui la cerimonia era incentrata: Alexia Cellerino, nipote di Dolores Alberghini, staffetta partigiana alla quale è dedicato il Quaderno dell'ANPI 2024, e le testimonianze di Isabella Ercolini, Oumemia Khemiri, Ketrin Kurti e Lucrezia Teti sul tema "Libertà è donna". 

 Infine, le premiazioni del concorso “La Costituzione oggi”: i riconoscimenti sono andati alla classe 4’AA Chimica e alla 5’ AS Scienze applicate dell’Istituto “Marconi”, alla classe II del corso Operatore del benessere dell’istituto “Santachiara”, alla 2’ A Scienze umane del Liceo “Peano” e al CIOFS FP “San Giuseppe” che custodirà per i prossimi dodici mesi la bandiera della Brigata partigiana “Arzani”.  Nel pomeriggio, a Castellar Ponzano, la cerimonia in ricordo di Bruno Prati, ucciso alla Benedicta.

@Riproduzione Riservata

Molino De Torti

@Riproduzione Riservata

Lions Castello Visconteo

di Redazione

da www.bambinopoli.it
@Riproduzione Riservata del 23 aprile 2024

Il raffreddore nei neonati rappresenta una delle principali preoccupazioni per i neogenitori. Ecco alcuni consigli utili. -

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Il raffreddore nei neonati rappresenta una delle principali preoccupazioni per i neogenitori. Anche se è una malattia comune e solitamente lieve, la gestione dei sintomi nei più piccoli può essere fonte di ansia e incertezza. Il sistema immunitario di un neonato è ancora in via di sviluppo, e questo lo rende più suscettibile alle infezioni rispetto agli adulti. Inoltre, i neonati non possono esprimere il proprio disagio e ciò complica la comprensione delle loro esigenze da parte dei genitori.

Identificazione dei sintomi del raffreddore nei neonati

Il raffreddore nei neonati si manifesta con sintomi simili a quelli degli adulti, ma con alcune peculiarità che necessitano un'attenzione particolare. I genitori possono notare che il loro bambino è più irritabile del solito, ha difficoltà a dormire, o mostra una perdita di appetito. 

I sintomi respiratori includono naso che cola o congestionato, starnuti frequenti e, talvolta, tosse. È essenziale monitorare questi sintomi per comprendere se il bambino sta solamente manifestando un lieve raffreddore o se sono presenti complicazioni che richiedono un intervento medico.

L'importanza di mantenere le vie aeree pulite

Uno degli aspetti fondamentali nella gestione del raffreddore nei neonati è mantenere libere le vie aeree. Un naso congestionato può causare notevole disagio in un neonato, interferendo con l'allattamento e il sonno. In questo contesto, dispositivi come il tira muco si rivelano strumenti preziosi. Potete trovare ottimi tira muco per neonati su Notino. Questi dispositivi sono progettati per essere delicati e efficaci, permettendo ai genitori di aiutare i loro bambini a liberarsi delle secrezioni nasali in modo sicuro.

Trattamenti e rimedi casalinghi

Nonostante la tentazione di ricorrere a farmaci, è importante ricordare che molti farmaci da banco non sono sicuri per i neonati. Pertanto, i trattamenti per i raffreddori nei più piccoli tendono a concentrarsi sul confort e sui rimedi naturali. L'umidificatore, per esempio, può aiutare a mantenere l'aria umida e alleviare la congestione nasale del bambino.
Altre pratiche includono tenere il bambino in posizione eretta durante l'allattamento e assicurare che il neonato sia adeguatamente idratato. Questi semplici gesti possono fare una grande differenza nel livello di confort del bambino.

Quando consultare un medico

È cruciale sapere quando un raffreddore richiede attenzione medica. Se i sintomi persistono per più di una settimana, se il bambino presenta febbre alta o difficoltà respiratorie, o se si notano segni di disidratazione, è imperativo contattare un pediatra. Inoltre, respirazione affannosa, pianto incessante o una improvvisa peggioramento delle condizioni generali sono tutti segnali che non devono essere ignorati.

Strategie preventive

Prevenire il raffreddore nei neonati è altrettanto importante quanto saperlo gestire. Pratiche come lavare frequentemente le mani, evitare il contatto con persone malate, e mantenere puliti gli ambienti in cui il neonato trascorre la maggior parte del tempo sono fondamentali. Inoltre, è benefico per i genitori conoscere i principi di una corretta nutrizione e di uno stile di vita sano per rafforzare il sistema immunitario del loro bambino fin dai primi mesi di vita.

L'educazione dei genitori sulle pratiche sanitarie e sui comportamenti preventivi può avere un impatto significativo sulla salute dei neonati. Essere informati non solo aiuta a gestire meglio le malattie quando si presentano, ma può anche ridurre la loro frequenza, garantendo ai bambini un inizio di vita più sano e sereno.

di Fabio Gervaso
da www.orizzontescuola.it
@Riproduzione Riservata del 20 aprile 2024

Qual è il ruolo delle emozioni in educazione ed in particolare perché non bisogna reprimere le emozioni anche se negative? Ne abbiamo parlato con il dott. Alberto Pellai, medico, psicoterapeuta dell’età evolutiva e ricercatore presso la facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università degli Studi di Milano, esperto di prevenzione in età evolutiva ed è autore di molti volumi per bambini, genitori e insegnanti.

Dottor Pellai, possiamo affermare che i giovani sono lo specchio della società in cui crescono. La famiglia e la scuola rappresentano i due principali istituti educativi, eppure entrambi vivono una profonda crisi. Come stiamo educando i nostri ragazzi e come correggere il tiro partendo dalla valorizzazione dell’educazione emotiva?

Penso che la fragilità che vediamo oggi in effetti è un po’ paradossale, perché siamo la prima generazione di adulti che si è davvero tanto occupata di crescere i figli felici, di garantire e tutelare il più possibile la felicità dei soggetti in età evolutiva e paradossalmente adesso ci troviamo in realtà una generazione di adolescenti che è in profonda crisi e che ha indicatori di salute emotiva e mentale molto affaticati, in alcuni casi molto compromessi. Il problema non è tanto chiedersi cosa non abbia funzionato, perché credo che in realtà gli adulti abbiano fatto tutti gli sforzi che dovevano essere fatti, ma allo stesso tempo non hanno tenuto sotto controllo alcune profonde modificazioni, variazioni degli stili di vita, che hanno pervaso poi in modo intenso il modo di stare al mondo e di crescere delle bambine e dei bambini, delle ragazze e dei ragazzi. C’è stata una grande concentrazione sul potenziale del sapere e saper fare, scuola e famiglia si sono attrezzate tantissimo per permettere ai nostri bambini e ragazzi di apprendere molte cose in più rispetto alle generazioni passate, ma in realtà poi non c’è stata un’equivalente cura del saper essere, quindi quello che è accaduto è che mentre venivano formati e addestrati a tante nuove abilità e competenze, quei giovani così preparati venivano in realtà fatti crescere in luoghi ristretti e chiusi, complice anche il Covid. Sono stati molto dentro le loro stanze, sono stati poco nel mondo esterno, hanno ridotto i loro compiti di socializzazione, la quantità e la qualità delle relazioni che vivono e questo ha avuto poi un impatto molto forte sulla loro competenza emotiva, sulla costruzione del senso di sé, sulla generazione di un’identità ritenuta valida e funzionale sulla percezione del loro protagonismo. Paradossalmente alcuni nostri studenti e studentesse si sentono quasi più validi ed efficaci nella vita virtuale, che è una vita che non c’è, rispetto alla vita reale che è invece la vita che devono imparare ad abitare. Probabilmente anche la crisi che stiamo vivendo adesso ci fornisce delle indicazioni e dei ripensamenti a cui non possiamo sottrarci se vogliamo sostenere in modo adeguato la crescita delle future generazioni.

Viviamo sempre meno nella relazione, questo, soprattutto in età evolutiva, può rappresentare un grave problema nella conoscenza e nella formazione della persona. Luoghi di incontro e socializzazione come la scuola rappresentano un elemento sempre più importante per la crescita anche emotiva. Quanto sono importanti questi aspetti?

Sono molto importanti, in realtà noi siamo dotati per definizione di una mente che è interpersonale e che costruisce il proprio benessere esclusivamente nella relazione con gli altri. È molto difficile conquistare la felicità nell’esperienza della solitudine e dell’isolamento. Per qualcuno è possibile, ma è possibile farlo dopo aver avuto un’intensa capacità di stare in mezzo agli altri, ecco che poi può esserci anche la fase della solitudine. Di sicuro in età evolutiva, invece, è fondamentale che i bambini ed i ragazzi socializzino, qua l’aspetto più inaspettato è che per alcuni di loro la scuola è l’unico luogo di socializzazione, cioè un’agenzia educativa in cui si entra, si socializza e si apprende, però all’interno di una cornice che propone un supporto formalizzato alla crescita; c’è poi tutto l’aspetto legato alla dimensione informale del vivere, del crescere, del relazionarsi con gli altri, una dimensione che ha bisogno dei luoghi di aggregazione, di relazionalità informale, di aspetti che non sono addestrativi ma sono esplorativi di esperienze di gioco, che non sono all’interno della logica della struttura di uno sport, per esempio, ma che sono modalità con cui i bambini prima ed i ragazzi poi si mettono in relazione, si intrattengono, passano il tempo, imparano a socializzare, generano relazioni e poi magari entrano dentro i conflitti per poi riparare la relazione, ricostruire l’intesa con l’altro. Tutto questo cantiere della crescita, che poi è il cantiere del saper essere, effettivamente è molto ridotto e tra l’atro la scuola si trova implicitamente ad essere l’unico cantiere in cui queste cose avvengono e possono avvenire, in questo momento è davvero un luogo di importanza cruciale perché oltre a svolgere le proprie funzioni di sostegno alla crescita e all’apprendimento è un vero e proprio luogo di sanità pubblica, nel senso che è quel luogo che tutela e garantisce ancora a bambini e ragazzi di trovarsi insieme ad altri, di compiere quelle funzioni di socializzazione così importanti. Però, riagganciandoci anche alla risposta precedente, noi adulti dobbiamo acquisire nuove consapevolezze rispetto a tutta una serie di bisogni, come la scomparsa dei cortili, la scomparsa dei bambini nei parchi e la scomparsa dei luoghi della città che erano preposti alla socializzazione dei bambini e dei ragazzi. Oggi se gli adolescenti si devono trovare da qualche parte c‘è sempre un biglietto da pagare, una consumazione che viene resa obbligatoria, e tutto questo non fa bene alla crescita.

Ci è stato insegnato di rincorrere sempre la felicità, quando invece il nostro equilibrio emotivo, la nostra omeostasi emotiva, si raggiunge dal giusto bilanciamento delle emozioni contrapposte, come il piacere ed il dolore. Come accettare ed educare anche le emozioni negative?

Direi che intanto essere felici, come dice la domanda, non significa sorridere sempre. La persona felice non è la persona che ha tutto, ma quella che costruisce un equilibrio intorno a quello che ha e a quello che gli accade e la vita accade con tutto il bello e il brutto. L’idea di tenere fuori il brutto dalla vita delle persone è un’idea senza senso, tant’è che poi noi siamo in effetti dotati di sei emozioni primarie di cui quelle che ci procurano fatica e disagio sono doppie rispetto a quelle che ci procurano invece benessere ed agio. Nelle emozioni primarie abbiamo felicità e sorpresa, che sono chiaramente emozioni che da subito ci fanno stare bene, mentre poi abbiamo rabbia, tristezza, paura e disgusto che sono invece emozioni che ci procurano disagio, una fatica che spesso ci procura malessere. Ecco che il tema grande è che essere felici non vuol dire non essere mai tristi, impauriti o arrabbiati, ma vuol dire che quando entro in queste emozioni io so riconoscerle, renderle valide, attribuire ad esse un significato, attraversarle e superarle e non bloccarle e negarle, che è un’operazione impossibile; per cui il giusto bilanciamento è permettere alla vita di accadere in tutte le sue cromature e con tutti i suoi avvenimenti. Quello che serve invece ai nostri figli è renderli capaci e attrezzati per gestire, maneggiare e affrontare tutte le emozioni, quelle belle e quelle brutte. Credo che oggi un limite molto grande dei ragazzi sia che abbiano maneggiato pochissimo le sensazioni e le emozioni che generano fatica, disagio, frustrazione e sono invece molto allenati alla gratificazione istantanea. Questo comporta che una sensazione perturbante, negativa ma di debole entità, possa essere percepita come una cosa enorme, perché va ad inserirsi in un sistema che non ha alcuna abitudine a stare dentro a quel genere di territorio e di questo dobbiamo in qualche modo diventare consapevoli. Credo che la sfida più importante sia quella di rieducare lentamente i ragazzi a rinunciare a quella enorme quantità di stimoli che li portano nel territorio della gratificazione istantanea e permettere a loro di avere esperienze che sono magari più lente, meno eccitanti, meno luccicanti, ma poi molto più capaci di ancorarli al principio di realtà.

Un’ultima domanda. Spesso i genitori sono troppo protettivi nei confronti dei loro figli, questo porta anche ad episodi sgradevoli nei confronti degli insegnanti visti più come dei disturbatori della quiete dei ragazzi. Quanto è importante, invece, il diritto all’errore e l’assunzione delle proprie responsabilità per i più giovani?

È importantissimo e soprattutto diventa sempre più importante quanto più i figli si addentrano nel territorio dell’adolescenza. Un figlio adolescente non dovrebbe mai trovarsi a contatto con un genitore che va a combattere le battaglie e le guerre del figlio. Quello che dovremmo aspettarci è che l’adolescenza è quel tempo in cui un figlio smette di essere dipendente, anche da tutta quella protezione, da quella comfort zone che l’adulto gli mette a disposizione, perché sente che è arrivato il momento della propria vita in cui si attiva lui, combatte lui le proprie battaglie. Questo, tra l’altro, permetterebbe al mondo adulto di generare una mente adulta comune con cui interfacciarsi con chi sta crescendo, perché se sei adolescente e devi combattere le tue battaglie nei confronti del mondo adulto e scopri che in realtà il mondo adulto è in battaglia al proprio interno nella logica di tutelare i tuoi bisogni come se tu fossi un bambino piccolo, ecco che questa roba qua diventa caotica e non è di nessun aiuto a nessuno, né a chi cresce, né a chi deve far crescere. Dentro a questo modello la fragilità dei genitori del terzo millennio è che spesso deve tutelare e difendere il proprio figlio nell’esperienza della sconfitta e dell’errore, quando invece quelle esperienze sono assolutamente necessarie nel percorso di crescita. L’età evolutiva si chiama così perché deve evolvere e per evolvere ha bisogno di fare errori e di apprendere da essi, altrimenti sarebbe un’età già evoluta. Però è anche vero che gli adulti di oggi tollerano pochissimo l’esperienza della caduta, della sconfitta o dell’errore del proprio figlio e questo genera degli enormi corti circuiti in cui poi l’ansia diventa l’emozione dominante, perché è l’ansia dell’adulto che non vuole mai vedere il proprio figlio cadere, fallire o non salire sul podio e chiaramente l’ansia di quel figlio che di fronte a nuove sfide si domanda se sarà all’altezza del compito, ma non se lo domanda in termini di competenze per affrontarlo, se lo domanda già da subito in termini di risultato performance, cioè come dev’essere il mio risultato finale, come dev’essere la mia performance, spostando perciò il focus dei propri sforzi e della propria attenzione sul risultato e non sul percorso, che è il peggiore degli autogol che può avvenire nel contesto di crescita.

di Paola Colombo
da www.avvenite.it
@Riproduzione Riservata del 29 aprile 2024

Il Centro Agape di Reggio Calabria ha avviato un progetto per sostenere donne vittime di violenza, ragazze madri e appartenenti a famiglie di 'ndrangheta, per un aiuto nell'educazione dei figli.-

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Avviato dal Centro Agape di Reggio Calabria un progetto rivolto a dare un aiuto a donne con figli minori che vivono una condizione difficile. Sono le cosiddette madri coraggio, donne di età e situazioni personali diverse, accomunate dal fatto di dovere crescere i figli senza avere un compagno accanto. Donne vittime di violenza, in uscita dai centri di accoglienza, vedove, separate, oppure divorziate o nubili, ragazze madri, donne appartenenti a famiglie di ndrangheta che vorrebbero rompere con il clan di appartenenza, donne che hanno detto no all’aborto accettando coraggiosamente una maternità difficile. Sono volti che raccontano storie di una povertà ancora nascosta, invisibile. Un pianeta complesso e poco conosciuto quello che si rivolge ai servizi sociali o alle associazioni, punta di un iceberg che ha dimensioni ben più vistose. Un numero in crescita anche in Calabria, dove secondo i dati Istat sono circa 30.000 il numero delle madri sole.

Ma al di là dei numeri, che contano relativamente quando si è di fronte a persone, chi sono queste donne? Per Giusi Nuri responsabile del progetto e presidente della Coop Soleinsieme, sono donne coraggiose, perché in contesti difficili, scelgono di portare avanti il ruolo genitoriale senza avere alcuna rete parentale su cui potere contare e senza alcuna sicurezza. Con il problema del lavoro, quando, con fatica, decidono di avviare un percorso di autonomia, qualsiasi sia il loro titolo di studio, (comunque solitamente basso), spesso senza avere avuto una formazione professionale, non trovano altro che attività di badanti, cameriere, donne delle pulizie, commesse nel migliore dei casi, ma quasi tutte soggette a sfruttamento pesante, senza alcuna assicurazione sociale né antinfortunistica.

Un caso a parte è quello delle donne straniere extracomunitarie, ad eccezione del gruppo delle orientali, solitamente integrato all’interno di famiglie come colf, mentre è drammatica la condizioni delle tante donne di origine africana: normalmente si tratta di persone con cultura medio-superiore, talvolta laureate e con conoscenza di numerose lingue, attirate dal miraggio di una vita migliore, e costrette nel migliore dei casi a lavori umilianti, non di rado in forma clandestina, e senza alcuna garanzia assicurativa ed infortunistica.

Ancora peggiore la situazione delle donne che vivono in contesti di ndrangheta, spesso con il compagno detenuto, che vorrebbero rompere con il clan per assicurare un futuro diverso ai loro figli, donne, ma che hanno bisogno di punti di riferimento. Queste donne vanno avvicinate con cautela e delicatezza e orientate dalle associazioni e dai servizi sociali in collaborazione con il Tribunale per i minorenni

Per Mario Nasone, presidente di Agape, altrettanto drammatica, per tutti, è l’esigenza di un alloggio. Difficile trovarlo, anche perché il reddito d’inclusione non rappresenta una garanzia per i proprietari. E nel settore si incontra tanto sfruttamento. Anche per alloggi miseri vengono richiesti fitti esosi e senza alcun contratto.

Per sperimentare un modello d’intervento su queste fasce di povertà, il Centro Agape ha avviato un progetto denominato “Ali della Libertà”, percorsi di autonomia per madri sole con il sostegno della Fondazione per il cambiamento e di ActionAid. L’attività prevede diversi interventi di sostegno e di affiancamento. Agape ha anche attivato un cento di ascolto e di accompagnamento con psicologi, assistenti sociali, legali. Per Daniela Rossi e Alessandra Lo Presti dell’associazione Tra Noi che stanno curando le attività di sensibilizzazione del progetto con parrocchie ed associazioni, è fondamentale l’attivazione di una rete di famiglie solidali e di appoggio a questi nuclei monogenitoriali. Una forma di solidarietà tra famiglie, per sostenere il compito educativo della madre, per aiutarla anche con piccoli gesti a fronteggiare i problemi della vita quotidiana e dell’educazione dei figli. Le famiglie, ma anche singoli volontari, che offriranno la loro disponibilità potranno frequentare alcuni incontri di preparazione. Sono stati già individuati i primi cinque nuclei madre-bambino per i quali sono state già attivati i primi interventi di aiuto.

Per informazioni: centro Comunitario Agape, tel. 0965/894706 o scrivendo a segr.agape@gmail.com

di Mimmo Muolo
da www.avvenire.it
@Riproduzione Riservata del 19 aprile 2024

Francesco ha ricevuto oltre seimila ragazzi provenienti da tutta Italia, chiedendo loro di essere «artigiani» della convivenza pacifica che non è solo assenza di guerra. «Non perdete tempo sui social».-

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Un momento dell'udienza alle Scuole per la pace - ANSA

Il Papa chiama i bambini, i ragazzi e i giovani di oggi a «essere artigiani di pace» e « protagonisti e non spettatori del futuro». Un futuro che non si può costruire da soli ma insieme, ha sottolineato. «Mettersi in rete e fare rete»., Cioè «passare dall'io al noi» e «lavorare per il bene di tutti». In altri termini, ha aggiunto Francesco, si tratta di «essere svegli e non addormentati», dato che l'avvenire «lo si porta avanti lavorando, non dormendo; camminando per le strade, non sdraiati sul divano; usando bene i mezzi informatici, non perdendo tempo sui social; e poi – ascoltate bene – questo tipo di sogno si realizza pregando, cioè insieme con Dio, non con le nostre sole forze». Lo richiede il momento presente in cui «le sfide odierne, e soprattutto i rischi, come nubi oscure, si addensano su di noi minacciando il nostro futuro».

Il Pontefice ha incontrato oltre seimila ragazzi della Rete nazionale delle Scuole per la Pace, promosso dalla "Fondazione Perugiassisi per la cultura della pace", confluiti da tutta Italia a in una affollatissima Aula Paolo VI, colorata da striscioni inneggianti alla pace e al prendersi cura degli altri. Concetti che il Papa ha ribadito anche nel suo discorso, facendo riferimento a queste «due parole-chiave: la pace e la cura. Sono due realtà legate tra loro», ha detto. E poi ha parlato loro di «un sogno collettivo che animi un impegno costante, per affrontare insieme le crisi ambientali, economiche, politiche e sociali che il nostro pianeta sta attraversando». «In questo tempo ancora segnato dalla guerra - ha rimarcato -, vi chiedo di essere artigiani della pace; in una società ancora prigioniera della cultura dello scarto, vi chiedo di essere protagonisti di inclusione; in un mondo attraversato da crisi globali, vi chiedo di essere costruttori di futuro, perché la nostra casa comune diventi luogo di fraternità, di solidarietà e di pace. Vi auguro di essere sempre appassionati di questo sogno».

La pace, ha però spiegato il Vescovo di Roma, «non è soltanto silenzio delle armi e assenza di guerra; è un clima di benevolenza, di fiducia e di amore che può maturare in una società fondata su relazioni di cura, in cui l’individualismo, la distrazione e l’indifferenza cedono il passo alla capacità di prestare attenzione all’altro, di ascoltarlo nei suoi bisogni fondamentali, di curare le sue ferite, di essere per lui o lei strumenti di compassione e di guarigione. Questa è la cura che Gesù ha verso l’umanità - ha quindi sottolineato -, in particolare verso i più fragili, e di cui il Vangelo ci parla spesso. Dal “prendersi cura” reciproco nasce una società inclusiva, fondata sulla pace e sul dialogo». E parlando di pace, il Pontefice ha invitato a pensare ai bambini che sono in guerra, ai bambini Ucraini, ai bambini di Gaza che hanno fame, invitando anche a fare «un piccolo silenzio in cui ognuno di noi pensa a questi bambini».

Il Papa ha poi ringraziato i ragazzi presenti «perché con passione e generosità vi impegnate a lavorare nel “cantiere del futuro”, vincendo la tentazione di una vita appiattita soltanto sull’oggi, che rischia di perdere la capacità di sognare in grande. Oggi più che mai, invece - ha detto Francesco -, c’è bisogno di vivere con responsabilità, allargando gli orizzonti, guardando avanti e seminando giorno per giorno quei semi di pace che domani potranno germogliare e portare frutto». L'appuntamento da tenere presente è quello del Summit del Futuro, convocato a New York dall’ONU per affrontare le grandi sfide globali di questo momento storico e firmare un “Patto per il Futuro” e una “Dichiarazione sulle generazioni future”. «Si tratta di un evento importante, e c’è bisogno anche del vostro contributo perché non rimanga soltanto “sulla carta”, ma diventi concreto e si realizzi attraverso percorsi e azioni di cambiamento».

L'augurio finale del Papa - che poi è sceso tra i ragazzi, pur spostandosi sulla carrozzella, stringendo mani e distribuendo sorrisi, carezze e incoraggiamenti - è che «vi stia sempre a cuore la sorte del nostro pianeta e dei vostri simili; vi stia a cuore il futuro che si apre davanti a noi, perché possa essere davvero come Dio lo sogna per tutti: un futuro di pace e di bellezza per l’umanità intera».

All'incontro con il Papa hanno preso parte 137 scuole della pace provenienti da 94 città. Erano presenti tra gli altri Flavio Lotti, presidente della Fondazione, e padre Enzo Fortunato, che ha ricordato l'appuntamento della Giornata mondiale dei bambini il 25 e 26 maggio prossimi. Canti e testimonianze si sono alternati durante tutta la mattinata. E alla fine i seimila hanno intonato "Non abbiamo paura, we are not afraid". Un proposito di pace anche questo.

di Antonella Mariani, Milano 
da www.avvenire.it
@Riproduzione Riservata del 23 aprile 2024

Viaggio nella struttura più attiva del capoluogo lombardo, da sempre al lavoro in stretta collaborazione con l'ospedale: «Nessuno molesta o fa terrorismo. Le volontarie? Semplicemente ascoltano».-

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Un colloquio al Centro di Aiuto alla Vita Mangiagalli di Milano - Cav Mangiagalli

In un talk televisivo qualche sera fa sono state definite “molestatrici” e “terroriste”: psicologiche, s’intende. Un’immagine in cui loro, le operatrici del Centro di aiuto alla vita (Cav) della Mangiagalli di Milano non si riconoscono affatto. Non c’è un clima di scontro tra abortisti e “pro-life”, al Policlinico, uno dei due ospedali in cui nascono più bambini in Italia: 6mila l’anno. Sul numero degli aborti invece non si hanno dati.
Salendo con l’ascensore fino al terzo piano della scala B, dove si trova il Cav, si è aiutati a raggiungere la sede dalle targhette che dettagliano la strada. Non una presenza clandestina, dunque. Anzi, a volere il Centro nella struttura fu quarant’anni fa un medico non obiettore, Giorgio Pardi. Una presenza poi confermata e, a quanto si dice, apprezzata dal direttore da poco andato in pensione, Enrico Ferrazzi, anche lui non obiettore. «Con Pardi c’era un accordo non scritto: le donne incinte che segnalavano difficoltà venivano mandate al Cav», esordisce la direttrice Soemia Sibillo, 48 anni, due figli, una laurea in Giurisprudenza e una “prima vita” nel campo della comunicazione e del giornalismo.

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Il cartello dentro la Clinica Mangiagalli che indirizza al Cav - A.Ma.

Soemia, che deve il nome a una passione del nonno materno per gli studi antichi, è “figlia d’anima” della storica fondatrice del Cav Mangiagalli, la vulcanica Paola Bonzi, scomparsa nel 2019, protagonista di epici duelli amore-odio con la primaria Alessandra Kustermann, che pure nei giorni scorsi ha rilasciato un’intervista in cui suggerisce di mettere «paletti invalicabili ai Cav». «Ci ha sorpreso, sì, un po’ amareggiato questo tiro al piccione sugli operatori in aiuto della vita. Noi non facciamo lavaggi del cervello. Non cerchiamo di convincere le donne con tecniche manipolatorie. Non facciamo sentire il battito fetale né usiamo parole come “omicidio”. Siamo laici per statuto, accogliamo donne provenienti da tutto il mondo e appartenenti a tutte le religioni. Ascoltiamo e proponiamo un aiuto. Ecco tutto».

L’emendamento proposto da Fratelli d’Italia, che suggerisce alle Regioni la possibilità di «avvalersi di soggetti del Terzo settore che abbiano una qualificata esperienza nel sostegno alla maternità», per Soemia e le altre non aggiunge nulla di nuovo a ciò che già oggi accade. «Tanto clamore per nulla. È un testo che richiama e sottolinea quanto già stabilito dalla legge 194». Centri di Aiuto alla Vita del resto sono già presenti in numerosi ospedali italiani: quattro in Piemonte, uno in Sardegna, uno in Friuli-Venezia Giulia, tre in Sicilia, uno in Liguria, dove esistono anche tre convenzioni con le Asl. A Castrovillari, in Calabria, la convenzione con l’ospedale è ventennale. 
In Lombardia, oltre alla Mangiagalli, c’è un Cav all’ospedale di Vimercate e al Buzzi di Milano.

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Un ritratto di Soemia Sibillo nelle stanze del Cav Mangiagalli di Milano - A.Ma.

«Arrivano donne e ragazze che hanno avuto il nostro recapito da medici di famiglia, infermiere e ginecologi, perfino da operatori dei consultori pubblici», racconta Antonella Cazzadore, la consulente familiare ed educatrice professionale che da 21 anni si occupa del colloquio con le donne nel primo trimestre di gravidanza (oltre 20 al mese), previsto dalla legge, che può sfociare nella decisione di abortire oppure di tenere il bambino.

Nel suo studio, come in tutto il Cav Mangiagalli, non ci sono slogan minatori, né pupazzi di gomma a forma di feti. L’ambiente è accogliente, intimo, con divani e cuscini e tisane.

«Gli assistenti sociali dei Comuni ci mandano ragazze incinte buttate fuori casa dai genitori e ci chiedono se abbiamo un alloggio di emergenza. Loro sono spaventate, assalite dai dubbi. Pensano di non poter diventare madri, ma vorrebbero tenere il bambino – racconta Antonella Cazzadore –. Oggi (ieri, ndr) ho svolto un colloquio con una ragazza incerta se proseguire la gravidanza perché è ancora in prova, teme che non le confermino il contratto. Per la prima volta, con noi, ha pensato di potercela fare». Eppure, secondo il dettato della legge 194, sono i consultori pubblici a dover contribuire «a rimuovere le cause che potrebbero indurre la donna all’interruzione di gravidanza». Ma non sempre – quasi mai – ne hanno le risorse o la possibilità.

Il Cav di Milano, che vive di donazioni e lasciti testamentari, dispone di una rete di alloggi disponibili per i casi più difficili o le emergenze e può proporre alle donne (e ai loro compagni) un Progetto lavoro di formazione o riqualificazione in collaborazione con la Fondazione Gi Group. I detrattori (in malafede) accusano i Cav di «intercettare le donne e offrire loro un po’ di soldi perché tengano il figlio» (sic).

«In realtà l’aiuto economico che noi possiamo dare è limitato. Se ci sono i requisiti, cerchiamo di attivare un Progetto Gemma (un sostegno economico mensile per 18 mesi, ndr); più spesso ci impegniamo a pagare le bollette, gli affitti arretrati, forniamo pannolini e buoni spesa, vestititi e latte in polvere, tiralatte e carrozzine», racconta Soemia Sibillo.

Quello che dovrebbe fare lo Stato, insomma, lo fa il Cav; infermieri, medici, operatori sociali lo sanno, e per questo indirizzano lì le donne e le ragazze che esprimono dubbi o incertezze sull’aborto. «Arrivano da noi anche con il certificato di Ivg in mano, ma non sono convinte. Noi le ascoltiamo, costruiamo insieme un progetto di aiuto. Facciamo in modo che il colloquio resti nel loro cuore come una relazione autentica. Siamo rispettose della loro libertà: se non tornano non le richiamiamo. Ma alla maggior parte è sufficiente sentirsi ascoltate, prese in carico da professionisti attenti e sensibili».

Sì, professionisti: perché i 10 dipendenti del Cav Mangiagalli e i 17 medici e operatori che operano anche nel vicino consultorio privato accreditato dal 2000 dalla Regione Lombardia (rimborso di 17,90 euro per una visita ostetrica, di 31,90 euro per il colloquio con lo psicologo, gratis per le pazienti) sono tutti qualificati.
Ginecologi, psicologi, ostetriche, assistenti familiari, educatori: alcuni prestano consulenza a titolo volontario, altri sono retribuiti dallo stesso Cav per assicurare la presenza ogni giorno. Sessanta volontari su più turni assicurano la distribuzione degli aiuti. Così nel 2023 il Cav Mangiagalli ha supportato 1.445 donne, in maggioranza straniere. I bimbi nati dal 1984 a oggi sono 25.661. Uno di loro è un “parto segreto”: il terzo figlio di una italiana che si sentiva troppo povera per allevarlo. L’ha fatto nascere, ed è una bella notizia. Il bambino è andato in adozione. «Però ci si dovrebbe interrogare – conclude Sibillo –: dov’è l’autodeterminazione della donna, dov'è la possibilità di crescere i propri figli, quando lo Stato non aiuta a prendere una decisione davvero libera?». Già, dov'è?

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di Roberta Raviolo
da www.bimbisaniebelli.it
@Riproduzione Riservata del 19 aprile 2024

Luoghi divertenti, pensati espressamente per i più piccoli e che offrono molti vantaggi per la crescita cognitiva e l’apertura mentale. Vediamo le motivazioni e parliamo dell'iniziativa " Un, due, tre...Musei" di Regione Lombardia che regala l'abbonamento ai musei per famiglie e bambini.-

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musei per bambini sono una parte importante dell’offerta culturale del nostro Paese. Inoltre sono un insostituibile strumento di crescita e di apertura sociale per i più piccoli. Stimolano la curiosità e lo spirito di osservazione, favoriscono la maturazione cognitiva, educano al bello e al rispetto del patrimonio comune. Per questo è importante frequentare i musei per bambini fin dai primi anni di vita dei piccoli, scegliendo i percorsi più adatti, cercando di coinvolgerli senza forzarli e approfittando delle iniziative che nascono per avvicinare i più piccoli alla cultura. Vediamo come.

Musei per i bambini, un’esperienza di crescita

L’Italia è una nazione dove la bellezza è a cielo aperto, grazie al suo passato di storia e cultura. In quasi ogni cittadina sono presenti monumenti, chiese ricche di opere d’arte, siti archeologici. Nel nostro Paese esistono anche molti musei per bambini da visitare con tutta la famiglia. È un’esperienza consigliabile a tutti perché si tratta di un’opportunità comunque positiva. Perché portare i bimbi al museo?

  • Le visite al museo rappresentano un’occasione culturale che aumenta e integra l’offerta didattica esclusivamente scolastica. I piccoli capiscono che il concetto di “apprendere” può esplicarsi anche al di fuori delle mura scolastiche, in modo vivo e coinvolgente.
  • I bambini sono spontaneamente abituati alla bellezza, tanto è vero che sono attratti da un paesaggio, da un cucciolo, da un fiore. In un museo dedicato a loro o in un antico castello i bambini ritrovano tutto questo in una dimensione nuova, di carattere ludico-ricreativo, spesso multisensoriale per la possibilità di vedere, ascoltare, interagire con supporti tecnologici.
  • Andare in un museo per bambini è anche un momento di coesione, che appiana le differenze sociali tra i piccoli perché si rivolge a tutti indistintamente. Abbatte le barriere e contrasta la povertà culturale, abituando fin dall’infanzia all’apertura mentale e all’accoglienza.
  • Il personale dedicato a mostre, esposizioni e musei per bambini è specificamente formato per porsi in modo comprensibile e accattivante, stimolando la curiosità dei più piccoli e spingendoli quindi a fare domande, ad approfondire un tema, a sviluppare gusti e interessi personali.

Come coinvolgere i bambini in una visita al museo

Una visita al museo è sempre un modo intelligente di trascorrere tempo di qualità con i propri figli, anche in giornate di pioggia, come alternativa al gioco in casa, al cinema o agli spettacoli teatrali pensati per i bambini. Non sempre, però, i piccoli si mostrano entusiasti all’idea di andare a visitarne uno. Spesso infatti si immagina il museo come un luogo noioso, in cui si è costretti a stare immobili trattenendo la propria vitalità. Ecco come fare per prepararli a una visita davvero indimenticabile.

Aspettare l’età giusta

E’ bene scegliere l’età giusta per portare il piccolo al museo. In teoria, ci si può andare anche con un neonato, ma è solo dai 4-5 anni in poi che i bimbi iniziano ad avere una sufficiente maturità cognitiva, una minima capacità di concentrazione e uno spirito di osservazione abbastanza sviluppato per cogliere le informazioni che gli vengono proposte. Andarci quando sono molto piccoli però aiuta loro ad allenarsi alla curiosità e abituarsi a frequentarli.

Invitare qualche amico

Se il bambino si mostra poco interessato, si può proporre una visita di gruppo, con qualche compagno di scuola e un paio di genitori. In questo modo il piccolo si sentirà maggiormente coinvolto e vivrà questa esperienza con più curiosità.

Stimolare il suo interesse

È consigliabile stimolare la sua fantasia cercando sui libri o in rete immagini e informazioni in tema con il museo che si andrà a visitare. Se, per esempio, si pensa di andare a visitare un museo di storia naturale, può essere divertente cercare con il bambino immagini e notizie di dinosauri, animali preistorici, rettili estinti e così via. Una volta nelle sale, sarà divertente cercarli nelle teche e nelle riproduzioni.

Scegliere il tema adatto

Anche l’approccio al museo è importante e può condizionare il rapporto del piccolo con questo tipo di istituzioni. Per questa ragione è bene scegliere proprio un museo dedicato specificatamente ai più piccoli o, al limite, qualcosa che possa stimolare la sua fantasia. Un’esposizione di quadri antichi è davvero troppo seria, mentre un castello medioevale può essere lo sfondo di racconti fantastici e una mostra di arte astratta può rivelarsi colorata e coinvolgente.

Un’iniziativa per i bambini in Lombardia e Valle d’Aosta

Proprio pensando ai bambini e alle famiglie il progetto «Un, due, tre…Musei!», nato dalla collaborazione tra Regione Lombardia, Associazione Abbonamento Musei e Oratori diocesi lombardo, vuole favorire l’avvicinamento di bambini e ragazzi al mondo della cultura. Dopo la pandemia infatti si è verificato un brusco calo delle visite ai musei, e per questo motivo si vuole rendere l’accesso alla portata di tutti.

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Circa 8000 nuclei famigliari riceveranno un abbonamento annuale gratuito valido in 249 musei tra Lombardia e Valle d’Aosta, con la possibilità quindi di visitare luoghi unici come la Pinacoteca di Brera, il museo della carta di Toscolano Maderno vicino a Brescia, il Palazzo Te a Mantova, il Forte di Bard in Val d’Aosta e molti altri luoghi unici che apriranno gratuitamente le porte a bambini e ragazzi tra i 6 e i 13 anni che frequentano gli oratori coinvolti nell’iniziativa. 
La tessera gratuita sarà annuale per i giovanissimi, mentre quella dell’accompagnatore adulto avrà validità bi-mensile e potrà essere estesa a un anno a prezzo agevolato. Si tratta di una iniziativa importante che potrà dare origine ad altri eventi dello stesso genere in tutta Italia e valida da aprile a fine dicembre 2024.

In breve

I musei per i bambini sono veri e propri mondi da scoprire, pensati espressamente per i piccoli dai 4-5 anni in poi: stimolano l’apertura mentale, aiutano a sviluppare il gusto personale, abbattono le barriere sociali e culturali. In Italia, oltre ai numerosi musei dedicati ai bambini, continuano a nascere iniziative che favoriscono l’avvicinamento dei più piccoli alla cultura, come il progetto “Un, due, tre…Musei!” della Regione Lombardia.

CAV Voghera

L'Associazione Vogherese di volontariato, che aiuta gratuitamente la donna in difficoltà ad accogliere la vita, superando le difficoltà.

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