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CAV - Centro di Accoglienza alla Vita Vogherese ODV

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VOGHERA PAVIA – Lo “scandaloso“ manifesto di ProVita sull’aborto censurato il mese scorso a Roma dal sindaco Virginia Raggi è sceso dai cartelloni affissi ai muri e si è messo a girare per le strade d’Italia.

Nei giorni scorsi il camion “vela” con l’immagine del feto ha fatto la sua comparsa nel capoluogo pavese e si appresta a sbarcare nelle altre più importanti città della provincia di Pavia.

“Il camion vela di ProVita dal 21 al 23 maggio ha girato per le strade di Pavia – spiega Lorenzo Simonetti -. Nei prossimi tre giorni sarà presente a Vigevano, Mortara e Voghera.”

“Da lunedì 21 maggio l’Italia sarà coperta da messaggi portati da camion vela che ricorderanno in 100 Province una verità scomoda – spiega il sodalizio -: con l’aborto muore sempre almeno un essere umano.”

La campagna è stata lanciata per la ricorrenza dei 40 anni della legge sull’aborto.

“Da settimane articoli, comunicati, appelli e lettere ai parlamentari sono infarciti di falsi dati, che dovrebbero tranquillizzare sulla riduzione del numero degli aborti in Italia – spiega ancora ProVita -. Purtroppo non è affatto vero: fu esagerato il numero degli aborti clandestini (dichiarato prima della legalizzazione nel 1978), e nella sbandierata diminuzione non si tiene conto del crollo della fertilità in Italia, così pure del forte utilizzo delle varie pillole abortive.”

Prosegue ProVita.

“I camion vela e i manifesti di ProVita, dislocati in 100 Province italiane, lanciano messaggi diversi. Da “Non sono un fatto politico, non sono un’invenzione della Chiesa. Sono un bambino, guardami”, a quelli già presenti nei maxi manifesti affissi in molte città italiane: “Tu eri così a 11 settimane. Tutti i tuoi organi erano presenti. Il tuo cuore batteva già dalla terza settimana dopo il concepimento”.

Immagini forti quelle proposte dal ProVita… che ProVita giustifica così: “Lo sono solo perché ritraggono la realtà, ignorata o falsificata: un essere umano è già formato a nemmeno tre mesi di vita.”

In provincia di Pavia in questi giorni sta girando il camion con il manifesto: “Tu eri così a 11 settimane”, uguale a quello censurato da un palazzo a Roma.

da www.vogheranews.it
@Riproduzione Riservata del 24 maggio 2018

di Lorenzo Canali

Anna riceve la telefonata del Papa, che la incoraggia a far nascere il bimbo che ha in grembo. E promette: «Se serve, lo battezzerò io». Ma anche Sofia e il suo fidanzato, grazie al Centro aiuto alla vita, all’ultimo momento rinunciano all’aborto.-

Due storie diverse, due percorsi simili, con uno stesso lieto fine. Protagoniste due ragazze: in comune hanno il fatto di vivere entrambe ad Arezzo e di far crescere nel proprio grembo una vita, nonostante mille difficoltà. Le due donne si chiamano Anna e Sofia (quest’ultimo è un nome di fantasia). La storia di Anna è quella più conosciuta, in questi giorni ha attirato su di sé l’attenzione di giornali e tv. Dopo aver perso il lavoro, decide di trasferirsi da Roma in Toscana. Qui scopre di essere incinta. La sua vicenda però, a questo punto si complica terribilmente. il padre di quel bebè, infatti, non vuol saperne proprio: è già sposato e ha un figlio. Per lei si apre il baratro: di fronte alle pressioni di lui, inizia a pensare all’aborto. Poi, l’intuizione: decide di scrivere una lettera a una persona speciale. Mette nero su bianco tutta la sua storia; sulla busta l’indirizzo è semplice: «Santo Padre Papa Francesco, Città del Vaticano, Roma». imbuca la lettera senza pensarci troppo. Poi, pochi giorni fa il telefono inizia a squillare. Sul display un numero sconosciuto, con il prefisso di Roma. Risponde e resta pietrificata: «Pronto Anna, sono papa Francesco. Ho letto la tua lettera. Noi cristiani non dobbiamo farci togliere la speranza, un bambino è un dono di Dio, un segno della Provvidenza». «Le sue parole mi hanno riempito il cuore di gioia – è il racconto di Anna -. Mi ha detto che ero stata molto coraggiosa e forte per il mio bambino».
In quei lunghi minuti al telefono con papa Francesco, Anna spiega al Pontefice che vorrebbe far battezzare quel figlio in arrivo, ma che ha paura non sia possibile perché divorziata. il Papa le risponde con la semplicità di un autentico pastore: «Sono convinto che non avrai problemi a trovare un padre spirituale e poi – ha aggiunto – in caso contrario, sappi che ci sono sempre io».
Proprio nei giorni in cui la storia di Anna faceva il giro del mondo, anche Sofia diceva il suo “sì” alla vita. Lei ha scoperto di essere incinta. Una gioia immensa, trasformatasi subito dopo nell’esatto opposto. Il fidanzato di Sofia, come quello di Anna, non vuole quel bambino. i soldi non ci sono e quella vita in arrivo non era stata affatto preventivata. Sofia non è forte, soffre per le pressioni di lui che continua a chiedere l’aborto. Alla fine cede e inizia il percorso per l’interruzione volontaria di gravidanza, all’ospedale di Arezzo. È diversa da Anna, non pensa di scrivere a Francesco. La Provvidenza però non manca di essere generosa. Sofia entra in contatto con il Centro di aiuto alla vita (Cav) di Arezzo. Un colloquio con le volontarie apre qualche speranza. Lei vorrebbe far nascere quel bambino, ma le cose non sono così semplici. Lui viene a conoscenza del contatto in corso con il Cav e la situazione degenera. Arriva a minacciare di morte i volontari. in un lunedì di fine estate è fissato l’intervento che porrà fine alla gravidanza di Sofia. Lei entra in ospedale, con la morte nel cuore. È stesa nel lettino, per fare l’anestesia. D’improvviso il fidanzato irrompe nella stanza e ferma tutto. Quel bambino nascerà, avranno un figlio e lo cresceranno insieme, nonostante tutto.
«Entrambe queste storie – spiega Elisa Del Cucina del Cav di Arezzo – raccontano quanto è importante, di fronte ad un possibile aborto, garantire parole di conforto. Anna è stata coraggiosa nella scelta di scrivere al Santo Padre, ma lo sono anche quelle tante donne che decidono di contattare il centro di aiuto alla vita. Di fronte a queste scelte drammatiche, occorre far comprendere che esiste una via alternativa all’aborto e che è sempre percorribile, nonostante tutto. Raccontare percorsi come quelli può servire ad aiutare altre donne che si trovano nella stessa situazione».
da www.famigliacristiana.it
@Riproduzione Riservata del 22 maggio 2018

di Orsola Vetri

A quarant'anni dalla legge sull'aborto Marina Casini Bandini ripercorre le tappe della battaglia del Movimento per la vita.-

Aveva soltanto 12 anni quando, quarant’anni fa il 22 maggio del 1978 venne approvata la legge 194.  Un testo che nel titolo parla di tutela della maternità e che come per una beffa introduce all’aborto e lo legalizza in Italia. Oggi Marina Casini Bandini, 52 anni, è il neo presidente del Movimento per la Vita Italiano e ricorda perfettamente quel periodo, se ne parlava nella sua e in tante famiglie italiane, ma soprattutto ricorda quello che venne dopo quando, ancora giovanissima, cominciò a impegnarsi nella campagna referendaria per abrogare la legge: «Era l’estate del 1980 vivevo a Firenze e si girava in pulmino per raccogliere le firme. Fu quella che chiamammo “estate per la vita”. Ricordo la partecipazione di tanti giovani e molta tensione, con gli attacchi delle femministe, dei gruppi abortisti e persino un ragazzo picchiato. Ma ricordo anche belle persone, entusiasmo, mobilitazione spontanea. Momenti intensi, quasi eroici che mi hanno formato e mi hanno fatto comprendere che è importante spendersi per un grande ideale e quello che mi si presentava era la cultura della vita e un più vero concetto di maternità».
La delusione? «In realtà la sconfitta era nell’aria ma come è stato detto allora è stato importante mettersi in gioco con tutto l’impegno e ripartire. L’importante è esserci stati e poter ricominciare da quel 32 % che ha votato per la vita».
Una ascendenza quella di Marina che comporta un nobile destino: suo papà, che lei chiama rigorosamente babbo, è l’onorevole Carlo Casini, fondatore nel 1975 del Movimento, e che ha da sempre coinvolto nelle sue battaglie la moglie Maria e i sei figli. Marina è la primogenita. La incontriamo nella sua accogliente casa vicino alla Facoltà di Medicina e chirurgia “A. Gemelli” dove insegna bioetica. Accanto a lei il figlio Giovanni e il marito Michele Bandini.
Quando le chiediamo cosa si può fare oggi per valorizzare quel poco che c’è di buono nella 194 e che è rimasto inapplicato la risposta è una sola: «A mio parere la 194 non ha nulla di buono. È un testo completamente iniquo. Tuttavia nell’impossibilità pratica di abrogarla a causa dell’attuale composizione del Parlamento, si può pensare di togliere nell’applicazione e nell’interpretazione tutti gli spazi che hanno causato le derive che negli anni si sono create. Innanzitutto riformando i consultori familiari che dovrebbero essere lo strumento per evitare l’aborto anche nel caso di una gravidanza difficile o non desiderata. Essi dovrebbero essere esclusivamente e non ambiguamente a servizio della vita umana dal concepimento. Nonostante la legge, affidi ad essi il compito di trovare le alternative all’aborto a concepimento avvenuto e addirittura di stabilire convenzioni con realtà che sul territorio si occupano della maternità sia prima che dopo la nascita, di fatto sono divenuti un luogo di accompagnamento all’aborto. Ma lo Stato che rinuncia a punire non deve rinunciare a difendere la vita umana.  Per non parlare dei casi di bandi di concorso che escludono i medici obiettori di coscienza o le amministrazioni locali che pretendono che nei consultori si possa dare la Ru 486, che è una pillola abortiva senza ombra di dubbio».
Forte e positiva Marina Casini non è d’accordo che a fronte della presunta diminuzione degli aborti non corrisponda un aumento della cultura per la vita: «Effettivamente dal 1983 si registra una diminuzione ma se è vero che sono diminuiti, non è stato grazie alla legge, ma nonostante la legge. Bisogna piuttosto dire grazie alla promozione di una cultura alternativa alla 194». Promozione che non è avvenuta attraverso i grandi media ma attraverso le idee del Movimento, le azioni dei Cav (Centri di aiuto alla vita),  350 in tutta Italia, le Case di accoglienza, i Progetti GemmaSOS Vita, le Culle per la vita. «E non è neanche vero che i giovani non siano sensibili a questi temi», continua Marina, «c’è molta convinzione e sensibilità a riguardo. Stiamo percorrendo una strada lunga e i risultati non si possono vedere in breve tempo».
Il Movimento per la vita è diffuso in tutta Italia con federazioni regionali che raccolgono le circa 500 sedi locali, con i 349 Centri di Aiuto alla Vita (CAV) e le 41 case di accoglienza. I Cav, in particolare, rappresentano il “braccio” del movimento e sono costituiti sia da volontari che da personale qualificato. Hanno l’importante compito di sostenere le donne che affrontano una gravidanza  difficile e hanno bisogno di aiuto per non fare la scelta sbagliata,  e di sensibilizzare l'opinione pubblica su come prevenire ed evitare l'aborto volontario: «Movimento per la vita e Cav hanno bisogno uno dell’altro. Sono due facce della stessa medaglia. L’annuncio della cultura della vita diventa credibile e forte con il riscontro pratico. E d’altra parte la dimensione pratica senza l’anima culturale rischia di inaridirsi e perdere le motivazione», spiega Marina Casini.
E all'obiezione secondo cui i cattolici si occupano solo di inizio e fine vita e non del durante, risponde«Non vi è  dubbio che la vita è "tutta la vita" e merita sempre di essere onorata e rispettata. Voglio però ricordare che nel “durante” è chiaro dove stiano il male e il bene. Infatti non esiste la pretesa di legittimare come diritti quei comportamenti aberranti contro la vita umana come la violenza verso i migranti, l’abuso dei minori, lo sfruttamento delle donne. Nessuno ne chiede una legittimazione giuridica perché è chiaro che sono un male. Ma nei momenti “emblematici” in cui l’essere umano è più fragile, cioè quando è concepito o quando è malato o disabile, ecco allora che si pretende che le aggressioni alla vita umana vengano garantite e diventino diritto l’aborto e l’eutanasia»
In casa le immagini di Giovanni Paolo II e Madre Teresa di Calcutta. Pare quasi scontato che siano le figure che l’hanno ispirata sino ad ora: «Per me sono importantissimi, ma lo sono anche tutte le persone che nei vari ambiti hanno vissuto all’insegna del dono di sé contribuendo così a rendere migliore il mondo. Ne ho incontrati tante di persone così nel Movimento per la Vita. Non sono famose ma le loro azioni sono testimonianza di virtù di cui ci si dimentica troppo spesso: generosità, gratuità e umiltà».
da www.famigliacristiana.it
@Riproduzione Riservata del 22 maggio 2018

Redazione Internet
19 maggio 2018
Oggi nella capitale si è tenuta l'ottava edizione italiana in difesa di chi ancora non è nato e dei più deboli. 
«Non uccidete il futuro», «La vita inizia col concepimento», «Ogni aborto è un bambino morto»: sono alcuni degli striscioni e dei cartelli innalzati questo pomeriggio per le vie di Roma dai partecipanti alla Marcia per la Vita, giunta alla sua ottava edizione italiana, che si è svolta oggi pomeriggio a Roma.
Quest'anno i temi principali del più importante appuntamento nazionale dei Movimenti Pro-Life sono i 40 anni dell'introduzione in Italia dell'aborto legale (22 maggio 1978), ma anche le vicende emblematiche del piccolo Alfie Evans e del tetraplegico francese Vincent Lambert. La madre di quest'ultimo - il quale rischia di morire di fame e di sete in seguito alla decisione dei medici di interrompere alimentazione e idratazione - è giunta a Roma per dare la sua testimonianza a fine corteo.
«La Marcia per la Vita vuole essere la sintesi delle tante manifestazioni che durante l'anno si svolgono per ribadire l'importanza della difesa della vita umana - hanno spiegato gli organizzatori, tra cui la presidente Virginia Coda Nunziante -. Con la Marcia per la Vita si vuole affermare la sacralità di questa vita e la sua assoluta intangibilità dal concepimento alla morte naturale, senza alcuna eccezione, alcuna condizione, alcun compromesso».
Anche quest'anno numerose le adesioni: oltre 100 dirigenti pro-life di tutto il mondo riuniti per il Rome Life Forum che si svolgerà all'Angelicum il 17-18 maggio, alla vigilia della Marcia, provenienti dall'Europa, America del Nord, America del Sud, Australia e Nuova Zelanda. Le associazioni e i gruppi sfilano con i propri simboli e slogan, dietro lo striscione d'apertura «Marcia Nazionale per la Vita».
«La Marcia per la Vita non ammette la presenza di simboli o slogan di partito - ha dichiarato Coda Nunziante - ma incoraggia la presenza di parlamentari ed esponenti politici, augurandosi che essi possano rappresentare nelle sedi politiche, a cominciare dal Parlamento italiano, i valori non negoziabili di difesa della famiglia e della vita umana dal concepimento alla morte naturale».
da www.avvenire.it
@Riproduzione Riservata del 19 maggio 2018
 
 

di Emes Dovico
La fondatrice Chiara Chiessi: «La partecipazione alla Marcia è una testimonianza per ricordare che tutti i nati dopo il '78 sono sopravvissuti alla 194. Scendiamo in piazza per testimoniare l’iniquità di quella legge. Il fatto di vedere che ci sono dei giovani che si spendono per questa causa e credono in qualcosa fa riflettere. Oltre a farci sentire e informare preghiamo, anche se fra noi c'è anche chi non è cattolico».-
Sanno di andare controcorrente, ma sanno anche che la loro battaglia culturale è necessaria per custodire un principio, la sacralità di ogni vita umana dal concepimento al suo termine naturale, che è alla base di ogni diritto e libertà. Parliamo degli "Universitari per la Vita", un gruppo fondato nel 2016 ma attivo dall’anno scorso, che conta oggi una quarantina di studenti sparsi in 12 università, i quali si stanno dando da fare per risvegliare le coscienze intorpidite da decenni di martellamento mediatico e leggi anti-vita, dall’aborto all’eutanasia. Sono voci fuori dal coro della cultura dominante, che stanno cercando di farsi conoscere per radicarsi nel territorio e difendere le vite più indifese. Una necessità quantomai urgente dopo le ultime censure ai danni delle campagne pro-life. Domani saranno presenti alla Marcia per la Vita di Roma, la Nuova BQ ha intervistato la loro fondatrice Chiara Chiessi.

Chiara, da che cosa nasce l’idea degli Universitari per la Vita?
Gli "Universitari per la Vita" sono nati dopo che nel 2016 ho partecipato alla Marcia per la Vita di Washington, dove ho potuto constatare l’entusiasmo che anima tanti giovani nel difendere la vita più indifesa. Passo la maggior parte del mio tempo in università e perciò mi sono detta che era da lì che bisognava partire per fare apostolato tra gli studenti e i miei coetanei. Siamo attivi di fatto dall’anno scorso, quando con un gruppo di amici abbiamo iniziato a fare volantinaggio a Roma Tre; poi si sono formati nuovi gruppi in altre università. La partecipazione alla Marcia è una testimonianza importante per ricordare che tutti noi siamo sopravvissuti alla 194, perché la nostra generazione è nata dopo il 1978. Scendiamo in piazza anzitutto per testimoniare l’iniquità di quella legge.

Che cosa puoi dire della cultura pro-life diffusa tra gli studenti americani? Quali differenze hai notato rispetto alla situazione in Italia?
Prima della Marcia ho partecipato a un convegno degli Students for Life, che sono il principale gruppo di studenti pro-vita negli Stati Uniti. Innanzitutto loro hanno molto più coraggio nel portare avanti le loro idee, non hanno paura o vergogna, invece noi siamo molto meno abituati, ma è normale perché siamo solo agli inizi del nostro percorso. Alla Marcia di Washington per l’80% erano giovani e veramente entusiasti, con tanta passione e convinzione della bontà di quanto stavano facendo. Per loro è del tutto naturale mettere un banchetto all’università e distribuire materiale, da noi non è una cosa scontata. Loro poi fanno molte veglie di preghiera fuori dagli ospedali, sono abituati a questa presenza pubblica.
Eppure non mancano le censure, né lì né qui.
Sì, la censura la stiamo sperimentando anche qui in Italia, università comprese. Come l’anno scorso, quando abbiamo invitato Gianna Jessen [l’attivista americana, oggi quarantunenne, sopravvissuta a un tentativo di aborto salino, ndr] a Roma Tre. Avevamo ottenuto tutti i permessi necessari per un’aula, ma dopo una riunione straordinaria dei docenti ci siamo dovuti spostare in cappellania, con la motivazione che l’aula non era il luogo adatto per una testimonianza del genere: si trattava di una scusa perché a Roma Tre si fanno conferenze di tutti i tipi, ma evidentemente questa dava fastidio. Testimonianze come quella della Jessen hanno un grande impatto, perché vedere con i tuoi occhi, e sentire parlare una persona che non doveva nascere, non può lasciare indifferenti.
La difesa della vita non è un tema caro ai grandi media, quelli che più influenzano la mentalità di giovani e adulti. Come pensate di convincere i vostri coetanei sulla bontà della vostra battaglia culturale?
La cosa più importante è la testimonianza. Il fatto di vedere che ci sono dei giovani che si spendono per una causa come questa e che credono veramente in qualcosa, fa riflettere molto, specie in una società dove ognuno si fa gli affari propri. Cerchiamo di far riflettere sui dati scientifici, per esempio che il cuore batte già a 16 giorni dal concepimento. Mostriamo delle riproduzioni di piccoli feti di 12 settimane, perché vedendo la concretezza del bambino che si va a uccidere le persone iniziano a riflettere, tanto che molti studenti hanno proprio paura di prendere in mano queste riproduzioni di bambini, hanno paura di vedere la verità.
Un po’ come è successo con la rimozione forzata a Roma del manifesto di Pro-Vita che mostrava un bambino in grembo all’undicesima settimana, e poi con la censura della campagna di CitizenGo
Esatto. Noi ci muoviamo pure con i social, postando video di donne che hanno abortito e che testimoniano il dramma psicologico vissuto dopo l’aborto: la sindrome post-abortiva di cui spesso non avevano mai sentito parlare, senza dimenticare che lascia delle ferite nel corpo, perché l’intervento non è una passeggiata. Il bambino è la prima vittima innocente, ma la seconda vittima è la donna. Le donne devono saperlo.
Vi siete mobilitati anche per difendere il diritto alla vita del piccolo Alfie Evans e prima ancora di Charlie Gard. Sono minacciati tanto i non nati quanto i già nati.
Sì, stiamo vivendo una deriva eugenetica davvero folle. Ma oltre a scendere in piazza per farci sentire e informare, è importantissima la preghiera. Oggi più che mai la preghiera è un’arma fondamentale e perciò abbiamo pregato sia a casa sia ai vari Rosari pubblici. Stiamo perdendo la consapevolezza della preziosità della vita, che è intrinseca all’essere umano: un bambino malato, un bambino con la sindrome di Down, un bambino in grembo di tre mesi con una patologia grave, hanno tutti la stessa identica dignità. E invece c’è una cultura mortifera, sempre più diffusa a partire dalla 194, che ci vuol passare il messaggio che ci sono delle vite che valgono di meno, che vanno scartate.
Molti di voi sono cattolici, in che cosa vi aiuta la fede nel portare avanti delle iniziative, che oggi generano spesso le derisioni del mondo?
La fede è fondamentale perché ci dà tanta forza, solo con le forze umane non riusciremmo ad andare avanti ogni giorno avendo il mondo contro. A me ispira molto quello che scrive san Giovanni Paolo II nell’Evangelium Vitae e tutti i messaggi che ha dato ai giovani: lui dice proprio che siamo arrivati a un punto in cui è necessario scendere in piazza per difendere il diritto alla vita, proteggere gli innocenti, denunciare le leggi ingiuste. La fede ti aiuta a considerare la dimensione soprannaturale, a guardare oltre la dimensione umana e pensare sia a difendere i nostri fratelli più piccoli sia al bene delle anime.
Gli "Universitari per la Vita" sono comunque aperti anche a chi non crede.
Sì, ho parlato dello sguardo cattolico e mio personale, ma non nasciamo come gruppo cattolico perché siamo aperti anche a studenti non credenti. Nel nostro gruppo c’è una ragazza non credente che è molto convinta di questa battaglia, è consapevole che non può esistere una società in cui si va a opprimere il più debole: non staccare il ventilatore a un bambino malato, che ne ha bisogno per respirare, è anzitutto un fatto di civiltà. Il valore di una società si vede proprio da come tratta la persona più fragile.
Sarete a Roma alla Marcia per la Vita.
Sì, parteciperemo noi di Roma e ci saranno anche i ragazzi dei gruppi universitari di Bologna, Firenze, Milano e Padova. Speriamo che nuove persone si uniscano a questa battaglia.
da www.lanuovabq.it
@Riproduzione Riservata del 18 maggio 2018
 

di Graziella Melina
Sono attesi in 15mila, si ritroveranno a Roma per ribadire che la vita è sacra. L’VIII edizione italiana della Marcia per la Vita è in programma sabato 19 maggio.-
Sono attesi in 15mila, si ritroveranno a Roma per ribadire che la vita è sacra. Per l’VIII edizione italiana della Marcia per la Vita, in programma sabato 19, la mobilitazione del popolo pro life si fa sempre più intensa. Come lo è ancora il ricordo del piccolo Alfie Evans. «Vogliamo affermare che la vita è sacra dal concepimento alla morte naturale e che nessuno ha il diritto di toglierla – rimarca la portavoce della Marcia, Virginia Coda Nunziante –. L’iniziativa di quest’anno sarà dedicata anche a ricordare i quarant’anni della legge sull’aborto, la 194 del 22 maggio 1978. Metteremo in evidenza poi il tema dell’eugenetica in particolare, per quanto riguarda i bambini con la sindrome di Down. E poi avremo la testimonianza della mamma di Vincent Lambert, il quarantunenne francese tetraplegico, da dieci anni in stato di minima coscienza che rischia la sospensione dell’idratazione e dell’alimentazione da parte dei medici e per il quale papa Francesco ha rivolto diversi appelli e preghiere».
L’appuntamento è alle 14.30 a piazza della Repubblica. «Partiremo da lì verso le 15 – prosegue Coda Nunziante –, cammineremo fino ai Fori Imperiali e poi a piazza Venezia. L’arrivo è stabilito in piazza della Madonna di Loreto. Ci saranno testimonianze, come la madre di Lambert, e poi di una ragazza con sindrome di Down. Interverrà anche una donna che ha abortito e che racconterà la sua drammatica esperienza. Ci aspettiamo una partecipazione in crescita, soprattutto di giovani. Vogliamo far arrivare questa cultura della vita alle nuove generazioni, rilanciando il messaggio della sacralità della vita anche alle istituzioni e ai politici perché non ci siano più "leggi ingiuste", come le chiamava papa Giovanni Paolo II e papa Benedetto XVI. Noi vogliamo invece leggi a favore della vita e per promuovere la vita».
Tra i partecipanti alla marcia diverse delegazioni straniere. «Anche quest’anno sono numerose le adesioni dei più importanti movimenti provenienti da Europa, America del Nord e del Sud, Australia e Nuova Zelanda, in tutto sono attese oltre 70 delegazioni. Le associazioni e i gruppi sfileranno con i propri simboli e slogan. Vogliono partecipare e arrivano da lontano proprio perché Roma rappresenta il cuore della cristianità. Per noi anche questa loro presenza rappresenta un messaggio forte, perché la difesa della vita, come diceva Madre Teresa, va difesa in tutti gli angoli della terra».
da www.avvenire.it
@Riproduzione Riservata del 17 maggio 2018
 
 
 

Ci ritroveremo a Roma, il 19 maggio, all’ottava Marcia per la vita, noi che abbiamo pregato e ci siamo alzati in piedi per Alfie Evans e per ogni altro bambino violato nel suo diritto alla vita. Ricorderemo Alfie assieme ai sei milioni di vittime che la legge italiana di aborto ha provocato in quarant’anni nel nostro Paese.-

Caro direttore,
Ci ritroveremo a Roma, il 19 maggio, all’ottava Marcia per la vita, noi che abbiamo pregato e ci siamo alzati in piedi per Alfie Evans e per ogni altro bambino violato nel suo diritto alla vita.
Ricorderemo Alfie assieme ai sei milioni di vittime che la legge italiana di aborto ha provocato in quarant’anni nel nostro Paese e alla sterminata schiera  di bimbi uccisi in tutto il mondo.
Marceremo con la consapevolezza che la vicenda di Alfie Evans, che tanto ha scosso l’opinione pubblica, che ci ha fatto pregare e piangere, non è solo un tragico episodio capitato per una straordinaria congiuntura di eventi negativi, ma è purtroppo l’approdo di una cultura irrispettosa dell’uomo, che ha radici lontane nel darwinismo e nell’eugenismo di marca anglosassone – come questo giornale ha già evidenziato nei giorni scorsi - che, saldandosi con il femminismo radicale  attraverso esponenti storiche come Margaret Sanger, super finanziate e sostenute dalla potente fondazione Rockfeller, ha programmato e diffuso nel mondo l’aborto volontario come il mezzo per costruire un mondo di “perfetti” in cui non ci sia posto per deboli e disabili.
Quanti pensano e giustificano l’aborto come mezzo al quale si deve poter ricorrere in circostanze particolarmente difficili e penose, quelle anime belle che  sono convinte che riguardi solo casi pietosi, devono fare finalmente i conti con la realtà. Che non è quella che ci presentavano gli esponenti del Partito Radicale negli anni in cui lavoravano per arrivare alla legalizzazione dell’aborto in Italia, attraverso bugiarde campagne strappalacrime in cui le donne morivano a migliaia, vittime dell’aborto clandestino, ma è quella di una società che non  accetta il diverso, il disabile, il debole e mette in atto qualunque espediente, medico o giuridico per disfarsene.
L’aumento esponenziale ex art. 6 della legge 194 dell’aborto eugenetico   camuffato da terapeutico, che elimina i feti come merce avariata al minimo accenno di deficit, è un evidente indizio del dilagare di una mentalità che non arretra di fronte all’uccisione dell’indifeso pur di restare dentro i dettami e gli schemi disegnati da una cultura che non accetta imperfezioni. Che non ne vuole pagare i costi, prefigurati solo in termini di dolore e di fatica.
Qualcuno gridò allo scandalo e si tracciò le vesti quando, pochi anni fa, due ricercatori italiani con cattedra in Australia, Alberto Giubilini e Francesca  Minerva, decretarono che se l’aborto è legittimamente praticabile in alcune condizioni, dovrebbe essere permesso anche l’aborto post-nascita, alle stesse condizioni, non solo in caso di disabilità e di malattia, ma anche quando un bambino costituisce un problema economico o di altra natura per la famiglia. Non era farina del loro sacco, questa idea, ma del  filosofo australiano Peter Singer, che già dagli anni ’70 del secolo scorso, dalle cattedre di prestigiose  università aveva diffuso il suo credo: uno scimpanzè è molto più “umano” di un neonato disabile che può essere tranquillamente usato come serbatoio di organi da trapiantare per guarire altri bambini.
Questi sono gli esiti dell’aborto. Se della vita nel grembo si può disporre, perché non farlo anche dopo la nascita?
Ci  possiamo ora meravigliare se medici, giudici e protocolli di strutture  ospedaliere che dovrebbero curare, hanno assunto, codificato tali idee e le mettono in pratica con la protervia e l’arroganza di cui hanno dato mostra all’Alder Hey di Liverpool? Quanti Alfie Evans sono già stati uccisi negli ospedali, da medici che, invece di prendersi cura del malato loro affidato, comminano sentenze di morte? Quanti ancora dovranno morire prima che l’uomo risalga il baratro in cui è precipitato e ritrovi il senso e le ragioni della vita?
Verremo da ogni parte del mondo a Roma, il 19 maggio, alla Marcia per la vita, per dire no all’aborto e per testimoniare che la vita merita di essere accolta  e amata sempre.
da www.lanuovabq.it
@Riproduzione Riservata del 08 maggio 2018

di Tilde Casale

Cosa significa e come si da vita a un Progetto Gemma, cioè una sorta di adozione a distanza per salvare una mamma e un bambino dall'aborto? Lo racconta una volontaria rievocando l'impegno suo e del marito.-

Il Progetto Gemma approda nella nostra parrocchia nel 1996 ed ha subito una partecipazione entusiastica.il mio sposo Roberto lombardi lo ha illustrato alla comunità  spiegando che consisteva nell’esigenza evangelica  di superare il male con il bene,  vuole essere un aiuto per tutte le donne che di fronte ad una gravidanza  ina spettata pensano all’aborto come  soluzione del problema.
La legge 194 del 1978  che ha depenalizzato l’aborto ha insinuato nella cultura corrente lo svilimento del valore sacro della vita umana e si rivolge (come dice madre teresa) al piu povero dei poveri il bambino concepito. non  tutte  le donne  tuttavia pensano di ricorrere all’aborto con leggerezza,  al contrario vorrebbero tenere il bambino, ma spesso sono sole di fronte a questa decisione.
 In questo contesto si inserisce il Progetto Gemma,  che è una forma di aiuto quando tra i motivi dell’aborto c’è anche un problema economico. Il progetto gemma  consiste  nel garantire alla donna in difficolta’ un contributo di euro 160 per 18 mesi: gli ultimi sei mesi di gravidanza e il primo anno di vita del bambino.
Un esborso di euro 160 al mese per 18 mesi è comunque molto gravoso per una persona o per una famiglia, e allora ecco l’idea di frazionare la cifra in piccole quote a partire da 5 euro mensili e permettere di partecipare a chiunque lo desideri.
Quasi subito sono stati completati  4 Progetti Gemma che hanno salvato quattro bimbi dall’aborto e la comunita’ continua ad essere sensibile  e disponibile tanto che siamo arrivati al progetto  46. 46 bambini salvati dall’aborto i cui nomi ci fanno emozionare ed esultare.
L’attenzione resta viva perchè i progetti durano 18 mesi e anche se è previsto l’anonimato fra chi dona e chi riceve, arrivano le notizie della nascita del bimbo, del superamento di tante difficoltà, arrivano i ringraziamenti e la gioia di ritrovarsi ad aver contribuito alla meraviglia di una vita. e di tutto questo rendiamo grazie al signore della vita.
E' frequente la preghiera rivolta al Signore dalla comunità a beneficio della donne aiutate, dei loro bambini, ed anche per la schiera di volontari dei CAV, i Centri di aiuto alla vita, disseminati in tutta l’Italia, che testimoniano una realtà fatta di migliaia di persone che accolgono con comprensione e amicizia  sincera le donne in difficoltà, fanno scoprire loro il valore inestimabile  del dono della vita, svolgendo in questo modo un’opera di prevenzione dell’aborto nel rispetto della persona umana.
Io e roberto abbiamo avuto due figlie gemelle monozigoti, nonostante i miei problemi di salute, e sono state per noi una vera benedizione del signore. eravamo felicissimi e non sentivamo la fatica di avere  due  bambine insieme. Lui è stato un padre presente e collaborativo, le bambine poi ragazze e poi donne lo adoravano. la gioia e la felicità di essere genitori  ci ha fatto sentire  cosi forte  e pressante il desiderio di prodigarsi  a  favore della vita nascente. Adesso sono arrivati 5 nipoti la più piccola ha solo due mesi, un piccolo miracolo che si ripete. Purtroppo roberto mi ha lasciata da sola  a gioire con i nipoti, a continuare il nostro amorevole impegno in favore della vita e dopo 41 anni e mezzo di matrimonio più 6 di fidanzamento è un po’ dura.
Il messaggio dei vescovi per la giornata per la vita del 4 febbraio 2018 ci ricorda che solo una comunità dal respiro evangelico è capace di trasformare la realtà e guarire dal dramma dell’aborto e dell’eutanasia; una comunità che sa farsi “samaritana” chinandosi sulla storia umana lacerata, ferita, scoraggiata; una comunita’ che con il salmista riconosce:  “mi indicherai il sentiero della vita, gioia piena alla tua presenza, dolcezza senza fine alla tua destra” (sal 16,11)
da www.famigliacristiana.it
@Riproduzione Riservata del 04 febbraio 2018

di Francesca D'Angelo
IL MESSAGGIO DELLA CEI
La Chiesa italiana celebra, nella prima domenica di febbraio, la Giornata per la vita per sensibilizzare la società contro l’aborto. Il Consiglio episcopale permanente della Cei predispone per questa occasione un messaggio e suggerisce un aspetto del tema. Per questa quarantesima giornata è “Il Vangelo della vita, gioia per il mondo”. Il Movimento per la vita, presieduto da Gian Luigi Gigli, appoggia da sempre questa iniziativa ricordando che «l’esperienza dei Centri di aiuto alla vita (Cav) mostra che molte volte è sufficiente una mano tesa per liberare la donna dalla costrizione del bisogno e della solitudine, dandole la forza di non abortire».

L’attrice, madrina dei centri di aiuto alla vita di Roma, rievoca il dramma vissuto sulla sua pelle e racconta come ha superato la paura e ha incontrato l’accoglienza.-

L’attrice, Beatrice Fazi (45 anni) oggi è sposata con Pierpaolo Platania ed è mamma di 4 figli.  Madrina dei centri di aiuto alla vita di Roma, in occasione della 40esima giornata  per la vita rievoca il dramma dell'aborto vissuto sulla sua pelle a soli 20 anni e racconta come ha superato la paura e ha incontrato l’accoglienza.
...l'attrice, nota al grande pubblico per la fiction Un medico in famiglia, sulla sua esperienza di aborto e fede, ha scritto un libro: Un cuore nuovo, edito da Piemme. Ma partiamo dall’inizio. Tutto è incominciato quando un’ancora ventenne Beatrice si ritrova, senza volerlo, incinta: il suo compagno non ne vuole sapere e così lei decide di abortire...
«All’epoca ero una donna a favore dei diritti femminili, dell’aborto e naturalmente contro la Chiesa. All’inizio, dunque, non percepivo come un errore la scelta di abortire: il passo falso, semmai, era stato rimanere incinta. Con questo inciampo clamoroso, rischiavo infatti di rovinarmi la carriera di attrice», spiega la Fazi.
A smentire questa sua certezza ci ha pensato però la realtà: dopo l’aborto, inizia a trascinarsi dietro una sofferenza sorda. Non riesce (e non vuole) darle un nome, preferendo attribuire questo suo malessere ad altre cause. «...pensavo che la Chiesa fosse il volto giudice di Dio che ti dice quale era la tua colpa e cosa dovevi fare per essere assolta».
Invece, proprio quella Chiesa che doveva condannarla ha finito per darle la pace. A ridosso del 2000, la Fazi incontra infatti l’uomo che diventerà poi suo marito, Pierpaolo Platania, dopo alcuni anni rimane incinta e da lì a qualche mese, complice una confessione con don Fabio Rosini, trova la fede.
«Il mio è stato un percorso di maturazione e consapevolezza graduale: il Signore mi ha mostrato, con delicatezza, i miei errori. Senza stravolgermi. Senza chiedermi di diventare altro da me».
da www.famigliacristiana.it
@Riproduzione Riservata del 04 febbraio 2018

La neurologa: «Irreversibile? Parola vietata»

Lucia Bellaspiga – www.avvenire.it domenica 4 febbraio 2018
Silvia Marino, ricercatrice del Centro neurolesi di Messina: «Dietro esistenze apparentemente "inutili" grandi storie di dignità»
Si celebra questa domenica in tutte le diocesi italiane la 40a Giornata nazionale per la vita. La Giornata è incentrata sul tema «Il Vangelo della vita, gioia per il mondo» e il Messaggio dei vescovi italiani sottolinea che «la gioia che il Vangelo della vita può testimoniare al mondo è dono di Dio e compito affidato all’uomo».
Il convegno è di quelli che schierano i massimi esperti a livello internazionale, e da mattina a sera il maxischermo manda dal palco le immagini di avveniristiche tecnologie capaci di scandagliare anche i cervelli apparentemente più inattivi, spenti da coma profondi, stati vegetativi, stati di minima coscienza, sindromi Locked-in o tuttora sconosciute e senza nome. Titolo, "Meeting internazionale sui disordini della coscienza - Ricerca, innovazione e nuovi approcci terapeutici", organizzato dalla Fondazione Irccs Istituto Neurologico Carlo Besta...
«È vero, il cervello resta un grande e affascinante mistero, ma la ricerca fa passi da gigante e le tecnologie permettono ogni giorno nuove applicazioni prima impensabili. Senza però perdere di vista le implicazioni etiche: questi "cervelli" sono persone, non cavie. Il mio obiettivo come scienziato è selezionare quelli che rispondono ai trattamenti, per offrire loro la migliore riabilitazione intensiva. Insomma, il fine ultimo è il bene del mio paziente, non l’esperimento riuscito». La neurologa Silvia Marino, ricercatrice del Centro neurolesi Bonino Pulejo Irccs di Messina, da anni scandaglia i residui più nascosti della coscienza nei suoi pazienti attraverso le tecniche di neuroimaging, ne studia le reazioni del cervello mentre lo stimola attraverso suoni, odori, fotografie, e oggi dichiara senza alcun dubbio: «La parola "irreversibile" applicata ai disturbi della coscienza, stato vegetativo compreso, non è più utilizzabile». Un’evidenza già emersa dagli interventi degli altri neuroscienziati presenti al convegno, che hanno dimostrato l’insondabilità di molte situazioni, i frequenti errori di diagnosi, il possibile passaggio da un presunto stato "vegetativo" a stati di coscienza transitoria o persistente...
Ci spiega in parole più semplici il suo lavoro?
Al paziente apparentemente privo di contatti con il mondo esterno, immobile da mesi o anni nel suo letto, somministriamo stimoli di ogni genere, soprattutto grazie alla fondamentale collaborazione dei familiari. Ad esempio gli facciamo ascoltare le voci della madre, del marito, dei figli, i suoni a lui cari, la musica preferita, la lettura di poesie. Mentre questo avviene, attraverso la risonanza magnetica funzionale possiamo vedere se si attivano le aree del suo cervello, o attraverso una speciale cuffia misuriamo l’attività elettrica cerebrale. In questo modo abbiamo studiato 27 pazienti con diagnosi di minima coscienza e 23 in stato vegetativo, e tra questi ultimi ben dieci si sono convertiti poi in stati di minima coscienza. L’interrogativo è forte: come può essere successo? Si sono evoluti o era sbagliata la diagnosi iniziale? Fatto sta che dopo sei mesi di metodica imaging qualcosa nel loro cervello faceva già presagire questa conversione.
Dunque può capitare che persone ritenute prive di coscienza abbiano invece una più o meno forte percezione del mondo intorno a loro?
Non è così per tutti, sia chiaro, ma in molti casi l’ascolto di una voce o la fotografia della persona amata accendono le aree del cervello legate alla percezione e all’emotività: nell’imaging le vediamo colorarsi, perché diventano attive. Segno che queste persone "ci sono" ancora.
Da qui a parlare di "risvegli" però ce ne passa.
La ricerca sul campo e le innovazioni tecnologiche stanno aprendo sicuramente scenari fino a pochissimi anni fa inimmaginabili, ma guai a dare false speranze. Diciamo che ormai non è più possibile parlare di irreversibilità, ci sono stati troppi casi di clinici e di ricercatori che, attraverso le diverse metodiche di stimolazione, hanno ottenuto nei loro pazienti risultati incredibili. Oggi in questo convegno abbiamo ascoltato ad esempio l’esperienza di Francesco Piccione, direttore di Neuroabilitazione al San Camillo di Venezia, che con la stimolazione magnetica del paziente ha ottenuto il recupero temporaneo del movimento dietro un ordine semplice (gli è stato chiesto di prendere il bicchiere d’acqua e portarlo alle labbra, cosa che ha fatto dopo anni di stato vegetativo). O l’esperienza di Angela Sirigu, direttore dell’Istituto di Scienze cognitive "Jeannedor" di Lione, che stimolando invece un singolo nervo ha avuto una ripresa dei livelli di coscienza. Insomma, i casi sono diversi e ognuno a se stante, ma visti tutti insieme raccontano di una ricerca italiana che sta offrendo scenari inediti quanto imprescindibili per comprendere che ci troviamo di fronte a vite pienamente umane.
C’è un caso che l’ha sorpresa?
Seguivo una signora che per una grave emorragia cerebrale era entrata prima in coma, poi era rimasta in stato vegetativo. Per capire se avesse ancora aree residue di percezione, l’ho stimolata col laser durante la risonanza magnetica funzionale, scoprendo così che le aree del dolore si attivavano. Significava che un trattamento su di lei avrebbe sortito i suoi effetti. Così a una donna che all’apparenza sembrava del tutto irrecuperabile ho intensificato stimolazioni di tutti i tipi: dopo otto mesi si è svegliata... era notte e ha iniziato a cantare una canzone di Baglioni che le piaceva. Oggi vive a casa sua con il marito e i figli, in sedia a rotelle ma felice. E racconta che durante lo "stato vegetativo" sentiva tutto ciò che le accadeva intorno, ma non riusciva a comunicarci di essere presente.
Se non vi foste accorti di quelle aree ricettive? Quante persone come lei in passato sono state definite "irreversibili" e mai trattate... Impossibile non ripensare a Eluana Englaro.
Non so cosa sarebbe potuto succedere, forse si sarebbe svegliata comunque, prima o poi, forse sarebbe rimasta così tutta la vita. Ma questa vicenda insegna che non si deve mai rinunciare, che bisogna sempre stimolare, combattere, riabilitare. Senza illudere i familiari, ma senza togliere la speranza quando c’è.
Qualcuno dice che queste vite costano troppo. Altri che sono vite meno degne... Vale la pena combattere tanto?
La vita va vissuta al meglio in qualunque condizione essa sia. Anche per chi non ha la fede è un dono, e questi casi ci danno la motivazione per cercare nuove tecnologie, senza mai rinunciare. Altrimenti non avremmo fatto il medico.
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