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L’algoritmo che nutre la fragilità dei ragazzi: “I social un Far West che gli adulti non riescono a controllare”

di Chiara Viglietti

da www.lastampa.it
@Riproduzione Riservata del 22 gennaio 2024

La psichiatra Laura Dalla Ragione: “Gli influencer più insidiosi non sono la Ferragni di turno ma gli stessi preadolescenti che dalla loro cameretta fanno transitare contenuti dannosi in modo inconsapevole”.-

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Non si era mai vista una società che aiuta i ragazzi a suicidarsi. È questa. E se ne sta annidata tra i social che i ragazzini usano come stanze, bolle. Primo errore, nostro: chiamarle virtuali. Per i tredici-quattrordicenni sono mondi in carne e ossa: reali come lo sono loro. Il problema è che sono fuori controllo. Un vantaggio per chi? Per quelle big company che le stanze le riempiono di demoni. Sulla porta, invisibile, sta scritto: che tu sia infelice. Perché chi è felice non desidera e non consuma. Laura Dalla Ragione è la Montessori dei disturbi alimentari: psichiatra e psicoterapeuta, docente del Campus biomedico di Roma, è a capo della rete per i disturbi del comportamento alimentare dell’Usl 1 dell’Umbria.

Che sta succedendo dentro i social?

«Che non ci sono regole. I social sono un Far West che gli adulti non riescono a controllare. Un tempo chiedevi a tuo figlio: dove vai, con chi esci? Oggi come è possibile avere contezza di quel che un adolescente vede quando accede alla piazza della rete? Lì può incontrare chiunque. E infatti incontra gli algoritmi».

Di cosa si nutre un algoritmo?

«Della paura, dell’insicurezza, del non essere all’altezza. Siamo stati tutti adolescenti: ma le fragilità dei ragazzi di oggi sono oceaniche perché il corpo sociale si è sfaldato. Non si sentono più contenuti da nessuno. E lì che diventano prede».

E mentre noi fuori viviamo la perdita dello sguardo di Agamben, dentro come lavorano le piattaforme?

«Indisturbate. Utilizzano gli algoritmi per decidere quali immagini, testi o video saranno visibili sul nostro feed e quali rimarranno nascoste. Il contenuto è uno specchietto per le allodole: deve essere talmente interessante da aumentare la frequenza di presenza».

Il social più pericoloso?

«TikTok. Il suo segreto è che non offre necessariamente video che aumentano la soddisfazione dei suoi utenti, ma contenuti che li mantengono sullo schermo più a lungo. Spesso si tratta di contenuti che provocano, indignano o suscitano malcontento. Tik Tok bombarda gli adolescenti con migliaia di immagini e contenuti su patologie come autolesionismo, suicidio, disturbi alimentari. Un esperimento del Center for Countering Digital Hate ha rilevato che l’algoritmo di TikTok consigliava rapidamente video sul suicidio e autolesionismo agli account. Ma questi erano stati appositamente creati dai ricercatori per imitare i tredicenni».

Il ruolo degli influencer?

«Gli influencer più insidiosi non sono la Ferragni di turno. Ma gli stessi preadolescenti che dalla loro cameretta fanno transitare contenuti dannosi per il corpo, l’autostima: in modo acritico e inconsapevole diventano un modello per migliaia di altri coetanei. Alcune mie pazienti anoressiche seguivano una tredicenne: dalla sua innocua camera, in pigiama rosa, indottrinava su come non mangiare, perdere peso, fare sport in modo compulsivo».

Se siamo l’esito delle relazioni che ci legano agli altri, la cultura digitale ci ha insegnato che l’io viene dopo il tu. E come se ne esce?

«Come abbiamo imparato le tabelline, l’alfabetizzazione digitale deve diventare una nuova materia di studio. Dobbiamo insegnare ai ragazzi nuovi codici emotivi: come funzionano i social e come usarli adeguatamente».

Come fare quando la scuola non vede l’elefante nella stanza e il cellulare viene visto solo come oggetto da vietare?

«La scuola deve affrontare il problema. Negarlo o demonizzarlo non è certo la soluzione: volenti o nolenti è il nostro destino».

Intanto, che tipo di adulti stiamo preparando?

«Andiamo verso una deriva educativa che però possiamo correggere: in che modo, dipenderà dal nostro senso di responsabilità».

Come definisce l’atteggiamento delle big company?

«Quando Hannah Arendt parlò di banalità del male attirò molte critiche ma indagò un tema filosofico importante: quanto scivolosa e pericolosa, ovvero manipolabile, fosse l’inabilità a pensare, dunque a seguire le giuste regole. O anche solo averle».

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