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Partorire in Panshir, la valle delle madri

dall'inviata Marta Serafini
«Zurgu, zurgu, spingi, spingi». Mahvash ha gli occhi e i capelli chiari, è entrata in travaglio da due ore. E’ il suo primo parto, ha fianchi stretti di bambina, avrà sì e no 16 anni. Ha l’aria spaventata e ogni tanto si lamenta, a bassa voce.
Il tempo si ferma. Potrebbero essere minuti, ore, anni. E fuori il sole inizia a scendere sulla valle del Panshir. Mahvash viene da un villaggio più a Nord. È da sola, come la maggior parte delle donne. I mariti non assistono ai parti. Nel Panshir non ci sono attacchi da quattro anni, è una delle poche province dell’Afghanistan dove non si combatte. Arrivando da Kabul si entra nella gola del fiume Anjumar. È la porta della valle, un ingresso angusto, tra due alte pareti di roccia frastagliata che scendono a picco verso il letto tortuoso del fiume e che rendono la regione inaccessibile ai talebani. Le bombe della capitale sono lontane, sembra di essere in un altro Paese.
A pochi metri dalla tomba di Massoud, il Leone del Panshir tradito e ucciso due giorni prima dell’attacco alle Torri gemelle, i carri armati sovietici cimeli di una guerra passata se ne stanno lì come guardiani della valle. Poco più in là un gruppo di bambini corre dietro le madri verso il fiume. Sembra di stare in paradiso, la luce è così bella da lasciare senza fiato, la neve dalle cime delle montagne si scioglie andando a ingrossare il fiume.
Ma essere donna non è facile nemmeno in Panshir. È qui che è stato introdotto il burqa per la prima volta e anche in questa regione dell’Afghanistan ancora oggi, le donne non possono fare niente senza il permesso degli uomini.
Si vede la testa. Mahvash è dilatata a 9 centimetri, il massimo. Sto appiattita contro il muro, respiro piano per non dare fastidio cercando di non svenire. Mi sento (e sono) perfettamente inutile ma ho chiesto Mahvash se potevo assistere al suo parto e lei ha fatto sì con il capo. Ci siamo sorrise. «Tashakor», grazie, le ho detto piano. Intorno a Mahvash ci sono Keren Picucci e Jenni Mates, ginecologa e ostetrica del centro di maternità di Anabah, di Emergency. Sanno cosa fare. Sanno quando dire «zurgu» e quando dire aspetta, con quella autorevolezza che solo l’esperienza di centinaia di parti può dare. Mahvash non potrebbe essere in mani migliori. La paziente è stanca, non riesce più a spingere. Ma il bambino sta bene, le ostetriche le concedono un attimo. «E’ una femmina, vedrai. Le femmine sono più forti», dice Jenni.
Al centro di maternità di Anabah, aperto da Emergency nel 2003 in un ex caserma, le donne sono il fulcro di tutto. Afghane, internazionali, italiane. «Questo è un ospedale per le donne, gestito da donne. Quando è stato aperto non è stato facile farlo accettare alla popolazione. Ma è stata una scommessa che abbiamo vinto. Oggi, vengono a partorire qui da tutto l’Afghanistan», spiega orgogliosa Eleonora Bruni, coordinatrice della clinica femminile, vicino alla targa che ricorda Valeria Solesin, la giovane dottoranda italiana uccisa nell’attacco del Bataclan nel 2015.
Quasi settecento parti al mese. «Solo l’altro ieri ne abbiamo avuti 37 in un giorno, è stato incredibile», dice Jenni. Jenni ha vissuto in Sudafrica fino a 25 anni, ha lavorato in Africa, in India. E poi è arrivata in Afghanistan con Emergency. «Sto qua in inverno, in primavera me ne torno al mio orto in Toscana. Sono la mamma e la nonna di tutte», scherza. Jenni insegna alle operatrici locali: dal falegname del villaggio ha fatto fare una tavolozza con dei fori. «La uso per spiegare alle ragazze la dilatazione», mi dice.
Al centro di Anabah non ci si ferma mai, sette giorni su sette. Ventiquattro ore al giorno, le radio del personale medico sono sempre accese. In sala operatoria Laura Lamparelli sta praticando un cesareo d’urgenza, si muove veloce mentre Jenni spinge l’utero della paziente da sotto. «Cerchiamo di fare pochi cesarei, perché le donne poi vogliono fare altri figli e diventa pericoloso ma in questo caso era obbligatorio, c’è stato un prolasso del cordone», spiega Laura. La media è di 5/6 figli a testa.
Ma le cose stanno cambiando nella valle delle madri. «Iniziano a fare family planning, soprattutto tra un figlio e l’altro. Chiedono la pillola, la spirale, l’iniezione», mi dice Mahbina, durante la pausa pranzo. Mahbina, 37 anni, è ancora single, sta studiando per diventare ostetrica, ogni giorno fa lezione di inglese. La sua famiglia è scappata in Pakistan durante l’occupazione dei talebani e lì lei ha potuto andare a scuola. «Se un giorno avrò una figlia voglio che si laurei come me».
In sala d’aspetto Shamina, è venuta a chiedere di legare le tube. È una contadina, ha in braccio il suo ultimo di 12 figli. La pelle è arsa dal sole, ha 38 anni, ma ne dimostra almeno dieci di più. Per l’intervento ha dovuto chiedere il permesso al marito. «È interessante osservare questo cambiamento. Prima era inconcepibile parlare di anticoncezionali. Ora sono le famiglie a prendere in considerazione questa opzione e anche gli uomini spesso sono d’accordo».
Dall’altra parte della struttura Gabriella Rivera, coordinatrice medica della parte pediatrica e chirurgica dell’ospedale sta facendo il giro delle visite. Prima dell’Afghanistan è stata in Sierra Leone, in Libia. Un padre si stringe il bambino vicino, gli ha dato un pacchetto di patatine per tenerlo buono. «La malnutrizione e la mancanza di educazione alimentare sono un grosso problema. Le madri usano molto il latte in polvere perché lo considerano uno status symbol. Ma lo diluiscono con il the e non bollono l’acqua, causando problemi di assorbimento ai bambini», spiega Gabriella.
Intanto Mahvash è diventata mamma di una neonata di 3 chili. Jenni e Keren provano a convincerla a mettersi la bambina sulla pelle vicino al seno. «Fino a qualche anno fa le donne si coprivano immediatamente, non hanno la consapevolezza piena del loro corpo», raccontano ancora. Come vuoi chiamare tua figlia, chiedo alla neomamma . «Non lo so ancora». Quasi sempre è così: «Non danno un nome ai bambini prima di un mese per non affezionarsi troppo». La mortalità infantile è ancora una piaga enorme in Afghanistan. Ogni mille feti nati vivi, 112,8 non ce la fanno. «E la maggior parte delle donne partorisce ancora in casa». Tante ancora non si disperano troppo se un figlio muore. «Cosa ci posso fare?», dicono guardando verso il cielo.
Ma qui nella valle delle mamme non succede quasi più.
da www.corriere.it
@Riproduzione Riservata del 09 giugno 2018

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