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Vita consacrata :Come convivere con persone “difficili”?

di Chiara D'Urbano, Psicologa e psicoterapeuta, ha studiato presso la Pontificia Università Gregoriana, specializzata in Psicologia clinica e Psicoterapia psicoanalitica. 
da www.cittànuova.it
@Riproduzione Riservata

Nella convivenza emergono situazioni che vanno oltre le difficoltà di carattere o di periodi particolari di crescita, di crisi o di prove. A volte ci troviamo con persone che minano profondamente i rapporti, la fiducia e l’amore che sono alla base della nostra vita e la ragione dello stare insieme. Fuori della comunità nessuno, neanche la famiglia, lo avverte, giacché custodiscono moltissimo l’immagine esterna di sé. Inoltre, nelle nostre comunità gli spostamenti frequenti non contribuiscono all’identificazione e all’accertamento di questi problemi. Purtroppo, tali casi sembrano non avere possibilità di cura perché la persona problematica nega la realtà vista e vissuta da tutte le altre. Anche se si parla chiaramente con lei, con esempi, dando la possibilità di una correzione, o di essere aiutata da un professionista esterno, in genere ella non accetta. Come comportarsi? Un consacrato

É vero che ora si sta molto più attenti al profilo delle candidate, ma ci troviamo con alcune situazioni molto difficili e ci tocca affrontarle in modo che ci sia anzitutto la carità verso queste sorelle, ma senza trascurare nemmeno la salute e “l’esaurimento” delle altre. Le decisioni che prendiamo ora determinano in qualche modo il panorama futuro che lasciamo alle sorelle più giovani. Credo che la nostra generazione adulta abbia una grandissima responsabilità in questo senso. Avrebbe qualcosa da dirci al riguardo? Come si possono affrontare situazioni in cui la persona ha difese così alte che non riconosce niente di se stessa? Una consacrata

Domande molto stimolanti che vengono dal mondo maschile e femminile, e che mettono al centro la problematicità sopraggiunta di un fratello o di una sorella nell’ambito della vita comune. Problematicità spesso neppure minimamente immaginate al di fuori del contesto di vita, perché la persona è “abile” a celare le tensioni che, invece, crea dentro casa o all’interno del contesto in cui trascorre molte ore.

Direi che non si possa impostare una riflessione a senso unico, di fronte all’interrogativo del “cosa fare” di fronte a uomini e donne che, quando ormai la loro scelta è già definitiva, creano difficoltà serie nel clima comunitario. Condivido, piuttosto, alcune osservazioni.

Prima osservazionegli anni iniziali purtroppo potrebbero non essere sufficienti a dire come la persona sarà in futuro. Mi spiego: chi accompagna i cammini formativi sa bene quante dinamiche di accondiscendenza, compiacenza, tolleranza indotta si attivino nella persona che sente di essere valutata dal suo formatore/formatrice. Ella è consapevole che il tempo di ingresso e quello immediatamente successivo sono orientati proprio a cercare di comprendere, insieme alla persona stessa, se la strada intrapresa favorirà la sua piena espansione spirituale ed umana. È chiaro, allora, che i primi anni sono solo parzialmente “onesti”, non per cattiva volontà di Marco (nome di fantasia) che chiede di entrare in comunità, o di Francesca (nome di fantasia) che desidera consacrarsi al Signore, i quali volutamente ometterebbero gli aspetti scomodi di sé, quanto perchè è naturale cercare di adattarsi alle situazioni quando c’è un obiettivo importante da raggiungere. Chi di noi, sotto osservazione, non cerca di sfumare i propri limiti?

Tuttavia questo non vuol dire che i formatori non debbano prepararsi adeguatamente prima di assumere il compito di accompagnamento, e quindi fare il possibile ai fini della valutazione. Attenzione, quindi, da parte dei responsabili, che chi assume l’onere formativo abbia strumenti idonei all’incarico.

Inoltre, quegli anni sono in qualche modo indicativi di alcuni fattori quali, ad esempio, la stabilità dell’umore, la disponibilità a collaborare e a lasciarsi mettere in discussione, di quanto bisogno la persona abbia di primeggiare, dominare, apparire… quindi c’è comunque uno spaccato significativo che lascia presagire come procederà Marco e come procederà Francesca.

Propongo, allora, alcune domande che potrebbero orientare un processo di accompagnamento vocazionale:

  • Chi accompagna – possibilmente non da solo/a – lascia che il tempo passi sperando che le cose si sistemino, o ha il coraggio di intervenire dove osservi che qualcosa non funziona?
  • Ma soprattutto: quale “modello” di consacrato/a si ha in mente? Cioè, cosa dovrebbe raggiungere la persona che inizia un processo vocazionale, quali caratteristiche spirituali e umane dovrebbe assumere per essere accolto e stare bene secondo quel carisma?
  • E non meno importante, anzi urgente: quale modello di comunità c’è sullo sfondo? Certo, una comunità di amore, collaborazione… d’accordo, ma concretamente, quali atteggiamenti, quali personalità non starebbero bene in quello specifico contesto carismatico? Sono interrogativi che andrebbero discussi apertamente sia perchè è cambiata la comprensione della “vita comune” rispetto a qualche generazione fa, sia perchè ci devono essere delle coordinate di confronto chiare quando si accompagna una persona, altrimenti la valutazione diventa troppo soggettiva.

Gli interrogativi accennati coinvolgono ulteriormente il rapporto tra i membri, il rapporto con l’autorità, l’equilibrio tra vita interna e apostolato… dipendenza e autonomia individuale. Occorre parlarne e parlarne, negli spazi e nei contesti adeguati, ma il formatore, la formatrice non può improvvisare queste riflessioni o portarle avanti da solo/a. Sarebbe grave.

È la comunità, l’Istituto, la Congregazione, il Movimento intero che si fanno carico di accogliere o meno una persona, anche se di fatto i ruoli sono diversificati e sono affidati temporaneamente ad alcuni.

Seconda osservazione ben nota a chi segue questa rubrica: le comunità vocazionali non possono assumersi oneri terapeutici “prendiamo quel fratello, poi cercheremo di aiutarlo”. Non è loro compito, anche perchè mancherebbero gli strumenti adeguati al supporto e alla cura. E per molte altre ragioni che non possiamo approfondire ora. Pertanto, quando è verosimile che la persona ha scarsi margini di miglioramento è opportuno aiutarla a prendere consapevolezza che non è il cammino adatto a lei.

Terza osservazione. Mettiamo in conto, come si diceva, che un buon accompagnamento e perfino un adeguato cammino psicologico, non costituiscono una garanzia certa che la persona procederà serenamente (magari). Negli anni a seguire il tempo d’inizio, possono subentrare diversi fattori legati alla conoscenza di sé della persona che si scopre diversa da come aveva iniziato. Possono emergere malattie, insoddisfazioni, frustrazioni che cambiano gli equilibri personali e quindi interpersonali. Le variabili sono innumerevoli. Fatto sta che la comunità inizia a risentire di un fratello o una sorella che diventa difficile: pretende, “usa” l’ambiente e l’Istituto secondo il proprio progetto, ma senza passione personale, è disinteressato della vita fraterna. Qui il panorama meriterebbe molti esempi. Nuovamente: che fare? Dirlo apertamente alla persona interessata sembra non sortire effetto, proposte di aiuto interno ed esterno non vengono accolte.

Servono strategie di sopravvivenza per tutti, se la persona non collabora e non accetta di assumersi le proprie responsabilità. Condivido ciò che attingo dall’esperienza clinica.

  • Le comunità vanno in qualche modo coinvolte attivamente nell’informazione e nelle proposte concrete: può essere utile cambiare qualcosa dello stile di vita, o sistemare diversamente l’orario, i momenti di incontro…? È vero, ci sono sensibilità e maturità diverse, ma la comunità è fatta di soggetti adulti e come tali vanno allenati a partecipare al clima comunitario e alle sue ferite. Non servono i dettagli di vita del fratello o della sorella, serve però che tutti prendano coscienza che tutti stiamo risentendo di una presenza “scomoda”.
  • Piuttosto che attivarsi nell’emergenza, sarebbe utile che in modo ordinario le comunità maschili e femminili fossero responsabilmente coinvolte nell’andamento interno, dall’economia al clima emotivo di casa. In questo modo quando sopraggiunge una difficoltà l’ambiente è più pronto e meno spaventato dalla criticità che si evidenzia.
  • Cambiare ambiente non risolve, ma allegerisce le tensioni del gruppo se Marco o Francesca non riescono a prendere coscienza che il loro modo d’essere è faticoso per la comunità. Di nuovo: tutta la famiglia carismatica è famiglia per quella persona, non solo la comunità specifica dove si trova in quel momento.
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