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Una comunità che educa in tempi di pandemia

di Chiara Spatola, Psicologa clinica e Psicoterapeuta, Dottore di ricerca in Psicopatologia dello Sviluppo. Docente presso la Facoltà di Psicologia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano   
da www.cittànuova.it
@Riproduzione Riservata del   28 novembre 2020
Il distanziamento fisico ha imposto un nuovo tipo di approccio relazionale che ha influito anche sulle modalità di educazione e apprendimento. Vediamo insieme come prenderci cura, da genitori, insegnanti o educatori, dei più giovani in diversi ruoli e contesti.-

In questa seconda fase di pandemia i nostri vissuti stanno lentamente cambiando. La paura non è sparita, ma stiamo gradualmente imparando ad accettarla e a conviverci. Disinfettanti, mascherine e distanziamento sociale sono diventati parte delle nostre abitudini in tutti i contesti, anche per chi educa.
Salutarci senza un abbraccio, un bacio o una stretta di mano non ci appare più così strano come nei primi mesi. Se da un lato questa capacità di adattamento ci sta aiutando ad affrontare la pandemia, dall’altro è importante mantenere viva la consapevolezza delle emozioni difficili che continuano a “muoversi” dentro di noi. Il rischio altrimenti è quello di anestetizzarci al dolore mediante strategie di negazione e di evitamento, di aspettare semplicemente che tutto passi, senza prenderci cura di ciò che sta accadendo nel momento presente. Come per il dolore fisico, la consapevolezza del dolore psicologico nostro e di chi ci sta accanto è necessaria per prendercene cura e per cercare, nei limiti del possibile, di alleviarlo.
 
Questo aspetto assume un’importanza particolare per la comunità educante: genitori, insegnanti, educatori, o più in generale tutte quelle persone che ruotano attorno ai più giovani e che, in diversi ruoli e contesti, sono chiamati a prendersi cura della loro crescita.
Cosa vuol dire essere educatori ai tempi della pandemia? Quali nuove sfide si è chiamati ad affrontare e cosa può aiutare ad affrontarle?
Uno spunto interessante a questo proposito ci arriva dalla Behavioral Analysis, una disciplina che analizza il comportamento umano in relazione al suo contesto, con l’obiettivo di promuovere il cambiamento verso una vita non priva di dolore, ma piena e significativa.
Cosa ci dicono le ultime ricerche  in questo campo? Esse ci suggeriscono che un educatore riesce ad essere più efficace nel suo compito educativo nella misura in cui è capace di coltivare flessibilità psicologica e compassione. Ecco alcuni passi che possono aiutarci ad andare in questa direzione:
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Prendersi cura di sé e del proprio dolore. In un recente articolo un gruppo di ricercatori, tra cui Lisa Coyne, professore di psicologia alla Harvard Medical School, spiegano l’importanza di questo primo passo attraverso una metafora. Quando saliamo in aereo, gli assistenti di volo ci raccomandano, in caso di emergenza, di indossare prima la nostra maschera d’ossigeno per poi aiutare chi dovesse avere bisogno della nostra assistenza. Se non siamo in sicurezza, infatti, non possiamo aiutare adeguatamente l’altro.
Nell’emergenza che stiamo vivendo, quest’immagine può esserci d’aiuto. Un educatore deve per prima cosa dedicarsi alla cura di sé e al proprio equilibrio emotivo, se vuole supportare in maniera efficace i bambini e i ragazzi a lui affidati, specialmente in questo momento di pandemia
Acquisisce dunque una grande importanza quella capacità chiamata “self-compassion” (auto-compassione). Essa consiste nell’essere sensibili rispetto al proprio dolore, riconoscere che si sta attraversando un momento difficile, essere gentili ed amorevoli con se stessi, dedicarsi dei momenti di pausa per riprendere fiato.
Focalizzarsi sul presente, un passo alla volta. In questo periodo è facile che la nostra attenzione si concentri su ciò che non possiamo fare, sui progetti e le attività che la pandemia ha bruscamente interrotto. Sono tante, infatti, le cose che siamo costretti a rimandare, senza sapere ancora per quanto. Ci sentiamo dunque sospesi, ed è naturale che la nostra mente si proietti sul futuro, attendendo con impazienza il momento in cui finalmente potremo tornare alla normalità. Stiamo attenti, però. Qui si nasconde un rischio: quello di disinvestire dal momento presente.
Alcune persone ad esempio, mi hanno confidato di “andare avanti per inerzia”, o di cercare distrazioni che li aiutino “a non pensare troppo”, a far passare in fretta questo momento buio in attesa di tempi migliori. Quando rinunciamo a vivere il presente in attesa del futuro, la nostra vitalità si riduce, il nostro sguardo (inteso anche come capacità di “vedere” le persone e le cose intorno a noi) si spegne. Cosa avviene invece se concentriamo le nostre energie sulle piccole cose che è possibile fare nel qui ed ora? Pensiamo alle relazioni sociali.
Non possiamo esprimere il nostro affetto con un abbraccio, ma possiamo guardarci più profondamente negli occhi. Questo non ci toglierà il dispiacere di quell’abbraccio mancato (ed è importante esserne consapevoli), ma ci permetterà di trovare nuove strade per connetterci gli uni agli altri. Potremo così imparare a mettere più affetto, empatia, compassione dentro uno sguardo o nel tono di voce. Accresceremo la nostra capacità di comprendere le emozioni altrui anche dietro la mascherina o attraverso uno schermo. Certamente speriamo di non doverlo fare ancora a lungo.  Non vogliamo e non dobbiamo abituarci a questa mancanza di contatto mediato dal corpo. Tuttavia il presente è l’unico momento che possiamo realmente abitare. A noi la scelta se viverlo o meno con pienezza.  Chi convive con una disabilità ci insegna che possiamo lasciarci bloccare dal limite o impegnarci a fondo nel cercare strade alternative, utilizzando al massimo i canali che abbiamo ancora a disposizione per comunicare, condividere, connetterci agli altri.
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Attribuire significato all’esperienza. Vi sono momenti di interazione tra il bambino e chi educa che acquistano un enorme significato. È lo sfondo in cui l’interazione avviene a renderla particolarmente significativa e importante. Non si tratta semplicemente del “cosa” di dice o si fa, ma piuttosto del “come”. Quando l’educatore si prende cura di questo sfondo relazionale e lo riempie di valore, al bambino arriva il messaggio: «Sono qui per te, sono imperfetto/a ma mi assumo il rischio di educarti e di lasciarmi educare da te». Nell’ultimo periodo, grazie al mio lavoro ho avuto l’opportunità di incontrare diversi insegnanti, che hanno condiviso con me dubbi ed esperienze. Ho visto la loro fatica di convivere con il rischio del contagio, di far rispettare le regole, di parlare per ore dietro mascherine e visiere. Tuttavia, ciò che più mi ha colpito è la capacità di alcuni di loro di cercare un significato nell’esperienza vissuta con i loro allievi in questi tempi difficili. Il loro riconoscere questo momento come un’opportunità educativa unica, che non avremmo mai voluto vivere, ma che non possiamo permetterci di sprecare.
Ho visto il loro coraggio nell’accettare il rischio. Non solo il rischio del contagio, ma anche e soprattutto il rischio di educare nel bel mezzo di una tempesta, pur sapendo di non poter dare certezze. Pronti a condividere dubbi, paure e speranze con i ragazzi, senza nascondere la propria fragilità. Mi ha colpito il loro cercare, con impegno e creatività, nuovi modi per rafforzare la relazione con i loro allievi, al di là delle mascherine, delle visiere e del distanziamento sociale.
Costruire reti di resilienza. Se ripercorriamo l’evoluzione della specie, comprendiamo quanto sia importante la capacità di noi esseri umani di cooperare. Essa ci ha permesso non solo di sopravvivere e di diffonderci in tutto il pianeta, ma anche di fare grandiose scoperte scientifiche, di costruire piramidi e cattedrali. Anche le neuroscienze evidenziano in maniera crescente la natura relazionale cervello umano. Tuttavia nella società attuale viene spesso enfatizzata l’importanza di farcela da soli. Chiedere aiuto e supporto viene visto come un segnale di fragilità. La resilienza, cioè la capacità di resistere all’impatto di un evento particolarmente negativo o traumatico, è spesso considerata una caratteristica individuale più che comunitaria. Scienza ed esperienza ci dicono invece che diventiamo più resilienti se siamo connessi tra noi. Compassione, cura e condivisione sono alcuni tra gli ingredienti fondamentali per costruire una rete di resilienza solida e compatta, che ci permetta di affrontare insieme la pandemia e tutte le conseguenze che essa porta con sé.
In questo momento buio e incerto più che mai c’è bisogno di una comunità educante che prima di tutto sia consapevole del proprio ruolo e della sua importanza. Che sappia focalizzarsi sul presente, valorizzando le piccole cose. Che costruisca reti di resilienza tra le persone, tra la famiglia e scuola, tra le generazioni. Reti che possano sostenerci, basate sulla fiducia reciproca e sulla compassione. Perché saremo resilienti solo se sapremo esserlo insieme.

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