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Sport e felicità

DI PAOLO CREPAZ
da www.cittànuova.it
@Riproduzione Riservata del 06 dicembre 2019

Ogni attività motoria più o meno agonistica è metafora della vita, una scoperta di sé stessi, dei propri limiti e talenti.-
Da Città Nuova n. 12/2019

Ad osservarne le miserie e le contraddizioni dello sport di alta prestazione (la vittoria ad ogni costo, la cultura del no limits, il doping, la truffa, l’agonismo esasperato e precoce, il fanatismo, la violenza e via dicendo), viene da ricredersi sul suo valore educativo e sociale. Ed è divenuto, secondo alcuni, oppio dei popoli, pane e circo, circo senza pane.

Il filosofo Robert Redeker afferma: «Lo sport è del tutto estraneo ai valori che ostenta, ne è la negazione più assoluta. Illusione di civiltà, lo sport è illusione di umanità». Eppure «ci si può drogare di cose buone… E una di queste è certamente lo sport», afferma Alessandro Zanardi. Sfidare se stessi, gli altri, l’ambiente; scoprire e migliorare le proprie qualità; misurarsi con i propri limiti per superarli o per far pace con essi; ricercare una prestazione assoluta o un record personale; divertirsi, fino a farsene impossessare, in un vissuto libero, separato, incerto, improduttivo, regolato, fittizio; assaporare le dinamiche del team… Tutto questo e tanto altro ancora è il senso del gioco e dello sport. E tutto questo ha un inatteso e sorprendente effetto collaterale: la felicità.

«Volete i ragazzi? – chiedeva don Bosco ai suoi educatori – Buttate in aria un pallone e prima che tocchi terra vedrete quanti si saranno avvicinati!». L’attività più naturale e istintiva che esista, fatta di correre, saltare, lanciare, ovvero l’attività ludica, motoria e sportiva, non soltanto ci rende più forti e più sani: ci rende felici, accende in noi qualcosa di misterioso e gratifica la nostra natura più profonda. E ci fa sentire liberi. Liberi di esprimere quella follia che rende l’uomo bambino per un attimo. E il bambino, per un attimo, simile al campione che campeggia nel poster appeso alla parete. E il percorso di chi vuole conoscere se stesso, il proprio talento e i propri limiti, di chi vuole confrontarsi con la natura e con gli altri ha un sapore particolare, sia per chi arriva fino ad essere pagato per divertirsi a fare sport, sia per chi muove i primi passi nella disciplina che ha iniziato ad amare.

L’avventura inizia con il coltivare il desiderio. E poi è fatica, sudore, ore e ore di allenamento, perfezionamento ossessivo del gesto tecnico, fallimenti, infortuni, imprevisti, cura maniacale degli stili di vita a partire dall’alimentazione e dal sonno. «Diceva bene Galeano, grande scrittore uruguaiano: «L’utopia è là, all’orizzonte. Mi avvicino di due passi, lei si allontana di due passi. Cammino per 10 passi e l’orizzonte si sposta di 10 passi più in là. Per quanto io
cammini, non la raggiungerò mai. A cosa serve l’utopia? Serve proprio a questo: a camminare». Nel gioco, come nell’attività motoria e sportiva, inseguiamo un’utopia che ha proprio questo scopo: farci camminare, farci andare avanti, cogliere la bellezza e l’utilità dell’inutile, il valore inestimabile dei beni immateriali e relazionali di cui abbiamo un’insaziabile bisogno una volta che abbiamo soddisfatto le necessità materiali.

Per i greci la felicità era sempre conseguenza di una pratica virtuosa, della saggezza e dell’amore per la verità. Coincide con la capacità che gli uomini hanno di condurre a realizzazione e a pienezza la loro esistenza. Non una cosa che “capita”, occasionale e fugace, ma il frutto di un’arte, di abilità e perizia nel fronteggiare e aggirare le difficoltà. «Per essere felici – scrive il filosofo Salvatore Natoli – bisogna in qualche modo divenire virtuosi dell’esistenza, ma al modo in cui si definisce virtuoso un grande pianista, un acrobata e in genere tutti coloro che, a seguito di un lungo esercizio, sanno rendere facile il difficile – o perlomeno riescono a farlo apparire tale –, che sanno trasformare le difficoltà in stimolo, che sanno tramutare la fatica in bellezza, in opera d’arte».

Lo sport, lo sappiamo, è definito scuola di vita, è un gioco che educa alla vita: «La vita è molto più che un gioco e giocare è un bel modo, divertente e appassionante, per imparare a viverla sul serio», hanno scritto i rugbisti Mirco e Mauro Bergamasco. Lo sport fatto bene, gestito bene, è scuola di vita perché hai la possibilità di essere nel gioco quello che vuoi essere al di fuori del gioco. Non si tratta di dover scegliere tra umiltà e coraggio, poiché tali virtù rappresentano le due facce di una stessa medaglia: saper sfidare con coraggio le nostre debolezze, accettando con umiltà le nostre fragilità. Perché, se è vero che mettendoci alla prova possiamo scoprirci migliori di quanto immaginavamo, è altrettanto vero che non saremo mai, esattamente, come vorremmo essere.  E questo far pace con noi stessi è forse la sfida più ardua, ma più appassionante.

Di fronte ad evidenti esasperazioni, si può affermare che la dimensione agonistica, che lo sport di oggi sembra esaltare oltre misura, sia davvero positiva in termini educativi e sociali? Del concetto di competizione esistono due prospettive: una basata solo sulla logica della vittoria ad ogni costo, dove chi arriva secondo è considerato come il primo dei perdenti; l’altra che considera la competizione a partire dal concetto di condivisione e di confronto reciproco. Competere è quanto vorrebbe chi, avvicinandosi a un campo sportivo, chiede: «Posso giocare con voi?». Il valore della competizione si sviluppa a partire dal processo, dal desiderio di condivisione. La competizione non è né buona, né cattiva: conta l’intenzionalità dell’esperienza, ovvero il senso che si dà alla competizione. Come gestirla così da farne un’esperienza educativa?

Il presupposto della competizione è la disponibilità reciproca a partecipare (l’assioma “l’importante è partecipare” di De Coubertin ha qui il suo senso più vero): il valore del competere sta nella disponibilità a condividere, a mettersi in gioco, nella disponibilità a vincere o perdere. Lo ha ricordato papa Francesco nel suo incontro con i ragazzi del calcio, rivolgendosi agli adulti e in particolare agli allenatori: «Qualcuno ha detto che camminava in punta di piedi sul campo per non calpestare i sogni sacri dei ragazzi. Vi chiedo di non trasformare i sogni dei vostri ragazzi in facili illusioni destinate a scontrarsi presto con i limiti della realtà; a non opprimere la loro vita con forme di ricatto che bloccano la loro libertà e fantasia; a non insegnare scorciatoie che portano solo a perdersi nel labirinto della vita. Possiate invece essere sempre complici del sorriso dei vostri atleti!».

Forza e coraggio

Giacomo, Jack, Sintini, pallavolista, campione italiano e mondiale, nel 2011 si ammala di cancro. Dopo un anno di cure e dopo un trapianto, torna a giocare e vince lo scudetto. Ha dato vita a un’associazione che raccoglie fondi per la ricerca sul cancro e per l’assistenza ai malati. Nel 2014 pubblica Forza e Coraggio (Mondadori), la sua autobiografia di uomo e di atleta. Si occupa di formazione motivazionale nelle scuole e nelle aziende.

Spesso si afferma: «Come nello sport, così nella vita». Come ha contribuito lo sport nel sostenerti nella tua lotta contro il cancro?
Lo sport non è l’esperienza principe, ma a me è stato d’aiuto. In primo luogo grazie al gioco di squadra: certe sfide non si vincono da soli. In secondo luogo per prepararmi al meglio alle diverse tappe della cura: la chemioterapia e poi il trapianto… Poi perché mi ha insegnato a studiare l’avversario, consapevole che al rivale sul campo o al cancro non devi dare dei vantaggi. L’ultimo aspetto è motivazionale: lo sport ti insegna a misurarti con la sconfitta, a imparare dalle situazioni difficili, ad attivare tutte le risorse di cui disponi.

Hai sperimentato la disperazione, la sofferenza fisica e spirituale: come ti ha cambiato questa esperienza?
All’inizio in modo negativo: ero insofferente e nervoso. Mi hanno spiegato che era normale e comprensibile. Oggi mi rendo conto che è un bagaglio di esperienza a cui non saprei rinunciare, che mi ha dato nuove competenze: sono molto più lucido di fronte alle problematiche della vita e tante cose mi appaiono molto più relative, sono molto più attento e tranquillo e ho la consapevolezza di avere attorno a me delle persone su cui posso contare. Ho scoperto la forza della fede già da bambino, ma durante la malattia ci sono stati momenti in cui l’ho persa, terrorizzato dall’idea che non ci fosse niente dopo questa vita. Il mio padre spirituale mi ha spiegato che era solo una tentazione, che dovevo pregare e tutto si sarebbe risolto. È stato così. In occasione del trapianto sono stato in serio pericolo di vita: lì ho provato una profonda solitudine. Pregare, o solo ripetere il nome di Gesù, mi ha aiutato moltissimo: mi sono sentito parte di qualcosa di più grande e la sensazione di solitudine si è affievolita. Nella preghiera chiedevo più la forza di vivere bene quei momenti prima ancora che di guarire.

Cosa rappresenta per te l’associazione a cui hai dato vita?
È un’opportunità per restituire almeno un po’ del bene ricevuto e per essere utile a chi soffre con un piccolo contributo, una parola, una carrozzina, un regalo di Natale. Incontro tanti giovani. Prima mostro loro le medaglie, i successi e i trionfi, poi il momento più basso della mia vita: da vincitore a persona che ha le stesse paure, debolezze, limiti che hanno loro. Una mia parola, un mio tweet, un mio gesto influenza il loro pensiero. Noi figure con un’immagine pubblica abbiamo una grossa responsabilità e possiamo incidere, più di quanto pensiamo, sulla vita delle persone.

Io, gli ottomila e la felicità

Tamara Lunger, alpinista altoatesina, ha al suo attivo due 8 mila, il Lhotse e il K2, e numerose cime di 6 e 7 mila metri.

Nel titolo del tuo libro Io, gli ottomila e la felicità (Rizzoli) c’è la sintesi del tuo percorso di vita?
Gli 8 mila erano il mio grande sogno, ma non lo sono più. Oggi li considero un obiettivo da pazzi: le spedizioni commerciali stanno portando lì persone senza conoscenza e rispetto per la montagna, che creano pericoli a loro stessi e agli altri. Ho bisogno di spazio, di natura, di sentirmi sola: fra poco andrò in Mongolia e poi in Groenlandia a cercare luoghi inesplorati, dove non c’è turismo, per vivere al limite della sopravvivenza. Ti sembro strana? Questa è la dimensione che mi fa sentire viva e felice!

Hai scritto: «Siamo tutti sulla terra per realizzare un sogno», un sogno, secondo i canoni del successo ad ogni costo, che si è interrotto a 70 metri di dislivello dalla vetta del Nanga Parbat, dove, a febbraio del 2016, al limite delle forze, hai deciso di rinunciare, per non mettere in gioco la tua vita e quella dei tuoi compagni di cordata giunti in cima. Cosa ha rappresentato per te quella esperienza?
Un dono enorme, molto di più che raggiungere una cima. Ho capito che non sono i miei successi, la fama, le cime conquistate. Tutto questo finisce. Io faccio fatica, rinuncio a qualcosa, piango, sto male: queste sono le esperienze che contano perché mi hanno permesso di pensare diversamente, di migliorare, di conoscermi a fondo. Sola, per ore, di notte, un vento fortissimo, dopo esser caduta per 200 metri, ho avuto paura di morire, ma sono riuscita a non andare in panico: momenti molto intensi che mi hanno lasciato un ricordo indelebile e regalato moltissimo. Cosa conta veramente? Io sono lontana dal vivere sempre in competizione: non voglio più far parte di questa dimensione che è lo specchio della società di oggi. Io adesso ho scelto di fare una vita sana, più consapevole e questo mi rende felice.

Hai scritto, raccontando quel momento di grande difficoltà: «Penso al mio caro amico Gesù, il mio migliore amico, gli chiedo di aiutarmi. Per me che sono credente cercare di intuire la volontà di Dio ed assecondarla e l’unica soluzione possibile. Lui sa bene quello che è giusto per me». Che valore ha per te questa dimensione spirituale?
Mi dà una sicurezza che nient’altro mi può dare. In quel momento gli ho detto: «Se veramente questo è il tuo volere, allora io sono pronta!». Non avevo paura di morire, ma mai mi sono sentita così sola e in difficoltà come al Nanga Parbat. Gesù è la persona che mi dà più di tutti: sentivo che era lì perché già altre volte mi aveva salvato la vita. Sono così felice di questa presenza che non riesco a pensare come una persona possa vivere senza questa sicurezza… È bellissimo!

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