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No alla maternità surrogata: «Ora si muova l'Onu»

Associazioni e personalità riunite alla Camera chiedono alle Nazioni Unite che riconosca la pratica dell'utero in affitto come discriminatoria e lesiva dei diritti delle donne.-
Come la schiavitù. Come le mutilazioni genitali. Così le Nazioni Unite dichiarino senza ambiguità che la maternità surrogata è una pratica «incompatibile con il rispetto dei diritti umani e della dignità delle donne». Questa la richiesta forte giunta oggi dall’incontro internazionale alla Camera su «Maternità al bivio: dalla libera scelta alla surrogata, una sfida mondiale», organizzato dal movimento femminista Se non ora quando-Libere. La conclusione di 3 ore di dibattito è una richiesta articolata in un documento di 4 pagine che ha come destinatario il Palazzo dell’Onu a Ginevra e in particolare la Commissione che vigila sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione delle donne (Cedaw), la Divisione dei diritti umani e l’Alto Commissario per i diritti umani.
«Noi firmatari – così si apre l’appello – chiediamo di aprire una procedura volta a raccomandare il divieto della pratica della maternità surrogata». La Convenzione contro le discriminazioni (Cedaw) è stata adottata nel 1979 dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite ed è entrata in vigore nel 1981 (non l’hanno firmata 6 Paesi, tra cui Sudan, Somalia, Iran e Usa): sulle sue disposizioni vigila la Commissione a cui le femministe di Se non ora quando-Libere si rivolgono.

I diritti umani e la non discriminazione

L’architettura dei diritti umani messi in piedi dall’Onu stabilisce la difesa della dignità umana che esclude, sia a livello nazionale che nelle relazioni internazionali, «la legittimità di ogni pratica di scambio, commerciale o altruista, con oggetto l’essere umano». La maternità surrogata è la «specifica appropriazione delle capacità riproduttive delle donne»; attraverso la sua pratica si controlla la gravidanza e si mette in pericolo la salute fisica e psichica della gestante «al solo scopo di soddisfare il bisogno di terzi». Non serve scomodare la retorica della libertà individuale o del «meraviglioso dono della vita»; la verità è che la surrogata porta a una «effettiva cosificazione della madre e del bambino, dato che crea consapevolmente una situazione di rinuncia e di abbandono». Nel documento si ribadisce una cosa che dovrebbe essere ovvia: il desiderio di essere genitori non può diventare «diritto individuale del committente di disporre del corpo di una donna ed appropriarsi in tal modo della vita di un bambino».

La battaglia delle donne per la libertà

La legittimazione della surrogata cancella la possibilità conquistata in tanti anni di battaglia delle donne per la libertà, perché riduce la maternità da atto umano, «espressione altissima della dignità umana femminile», a procedimento meccanico, le cui componenti diventano merci da mettere sul mercato. La scienza medica ha stabilito che esistono legami fortissimi tra gestante e nascituro, e la surrogata li nega, anzi li cancella. La «gestante per altri» perde ogni diritto sul suo corpo, sulle decisioni che riguardano la sua salute (si pensi a una eventuale interruzione di gravidanza imposta dai committenti del bambino) e infine sul figlio stesso. «Mettere a disposizione di altri il complesso della vita fisica e psichica della madre "portatrice" è un atto di limitazione della libertà delle donne, inaudito dall’abolizione della schiavitù».

La maternità surrogata come pratica sociale

Il mercato dell’utero in affitto («non una tecnica di riproduzione bensì una pratica sociale») è stimato a diversi miliardi di dollari per anno e presuppone una disuguaglianza di reddito tra committenti e madre portatrice: in Asia sono le donne più povere, negli Usa quelle della classe media a basso reddito. Ecco perché «legittimare una simile mercato della riproduzione umana sarebbe una sconfitta per le donne e per il Diritto internazionale, specialmente la Convenzione per l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione verso le donne (Cedaw)», visto che consiste nell’appropriazione delle capacità riproduttive delle donne. La Cedaw, peraltro, prevede la repressione del commercio delle donne e la surrogata, in fondo, questo fa: «sfruttare la fragilità economica e/o sociale di alcune donne per spingerle, in cambio di denaro, a mettere la loro capacità riproduttiva al servizio dei più ricchi». Commercio, appunto.

Schiavitù e diritti dei bambini

Ma non è solo Cedaw a essere chiamata in causa. C’è anche la Convenzione delle Nazioni Unite sulla schiavitù, la Convenzione dei diritti del bambino, che mira a evitare che i piccoli siano separati dai genitori, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea che stabilisce che il corpo umano e le sue parti no devono essere fonte di profitto... numerosi altri protocolli internazionali vengono citati dal documento di Se non ora quando-Libere. E poi ci sono le recenti prese di posizione contrarie del Parlamento europeo, le nuove legislazioni restrittive che stanno per essere approvate in India, Cambogia, Thailandia, Tibet...

Vietato in patria, lecito all’estero

Poiché quello che è vietato in patria (ad esempio in Italia) è abbastanza facilmente realizzabile all’estero, «è necessario coinvolgere le agenzie dell’Onu per creare le condizioni per l’abolizione della maternità surrogata. In questa prospettiva è urgente adottare, nel quadro della Cedaw, una raccomandazione contro la maternità surrogata sul modello di quella adottata per combattere la pratica delle mutilazioni genitali femminili». Il percorso poi continua, una volta allargato il consenso, fino ad arrivare – nelle intenzioni – all’abolizione universale. Nell’attesa, conclude il documento, sarà necessario prevedere accordi internazionali per scoraggiare lo spostamento di cittadini da Stati in cui la surrogata è vietata a quelli in cui è lecita. Infine, ai bambini che sono già nati bisognerà dare il diritto di conoscere la madre che l’ha messa al mondo e «nella misura del possibile, di essere allevato da lei».
Antonella Mariani – da www.avvenire.it di giovedì 23 marzo 2017
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