Nathalie e gli altri: il Belgio e la fila per fare i volontari in ospedale
di Paolo Riva
da www.corriere.it
@Riproduzione Riservata del 29 dicembre 2020
Migliaia di cittadini fanno accoglienza, aiutano in mensa e nella logistica. A Liegi hanno addirittura chiuso le «candidature». La molla è sempre la stessa: «Ho sentito i racconti sulla solitudine dei malati e volevo fare qualcosa per loro».-
«Faccio volontariato perché il padre di una mia cara amica ha preso il coronavirus», spiega con trasporto Nathalie. «Ho sentito i racconti sulla solitudine dei pazienti e sulla distanza dai parenti. Mi hanno scioccata e mi è venuta voglia di fare qualcosa per gli ospedali in difficoltà», prosegue. Nathalie di cognome fa Katumwa, ha trentadue anni e lavora nell’industria del cinema. Come lei sono tanti i cittadini e le cittadine che in Belgio, durante la seconda ondata della pandemia, si sono messi a disposizione per fare volontariato in ospedale. Non sono medici o infermieri, ma, con pochi timori e tanta voglia di fare, svolgono un servizio molto utile. «Non ho paura: sono giovane, in buona salute e ho già preso il Covid in forma lieve mesi fa», dice Nathalie fuori dall’ospedale Chu Brugmann di Bruxelles, dove è impegnata. Tra ottobre e novembre, nel pieno di una seconda ondata che qui è stata tra le più dure d’Europa, le strutture sanitarie hanno chiesto aiuto alla cittadinanza. E l’aiuto è arrivato. La rete Iris, che a Bruxelles coordina più ospedali, in una sola settimana ha ricevuto 217 candidature. Altre sono arrivate direttamente alle strutture. «Da noi si sono date disponibili circa cento persone di cui trentacinque attualmente attive», spiega Laurence Amiot, responsabile dei volontari al Brugmann.
A Liegi, una delle province più colpite, le candidature hanno dovuto addirittura chiuderle. Da fine ottobre gli ospedali locali ne hanno ricevute oltre 800, che si sono trasformate a novembre in una media di 50 volontari attivi ogni giorno. Aldo Di Prima è uno di loro: «Al momento sono disoccupato e quindi vado all’ospedale della Citadelle tre volte a settimana, per otto ore. È un periodo difficile per tutti e questo è il mio modo di aiutare», dice con semplicità e orgoglio. Insieme con altri volontari si occupa della logistica.
A Bruxelles invece Nathalie è impegnata in un nuovo servizio, nato perché anche in Belgio le visite dei parenti sono sospese. «Noi volontari ritiriamo quello che le famiglie vogliono consegnare ai pazienti. Vestiti, beni di conforto, libri… Li organizziamo e poi il personale li smista nei reparti», spiega. Non è solo un compito pratico. «Cerchiamo di mostrare molta empatia perché - riprende - abbiamo a che fare con parenti lontani dai loro cari. Proviamo a sostenerli, chiediamo loro come va e se hanno bisogno, sempre col sorriso», dice.
Quello di Georgiana non è un caso isolato. I volontari senza esperienza sono la maggioranza di quelli arrivati al Brugmann in questo periodo. Rappresentano la luce in un quadro che il Covid ha reso fosco. Perché secondo una ricerca della Fondazione Roi Baudouin un’associazione belga su tre, a partire da marzo, ha visto in realtà dimezzarsi il numero dei propri volontari. Il problema è l’offerta, non la domanda. La pandemia ha fermato le attività di molte organizzazioni. Ma i cittadini sono pronti a impegnarsi. Gli ospedali, per esempio, non sanno per quanto ancora necessiteranno del sostegno di questi volontari d’emergenza, ma sia Nathalie sia Georgiana si dicono pronte a continuare fin quando ci sarà bisogno. E, anzi, a proseguire anche dopo.«Ho iniziato a dicembre - riflette Georgiana - perché mi sembra il mese giusto per fare un regalo alla comunità in cui vivo. Ma spero di continuare a lungo. Anche quando la pandemia sarà finalmente un ricordo del passato».