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La conquista dell’io: come nasce l’identità del bambino?

di Elisabetta Zamberlan
da www.quimamme.corriere.it
@Riproduzione Riservata

So chi sono io? Questa domanda, prima o poi, ce la poniamo tutti, magari per l’intera vita. Ma anche solo per arrivare a dire “io”, serve il tempo di compiere un cammino di crescita alimentato dall’affetto dei genitori. Ecco tutte le tappe della conquista dell’io nei bambini.-

Il senso di sé è un aspetto preminente dello sviluppo psicoaffettivo: un bimbo piccolo non sa di essere un “io” differente dagli altri. Le fasi che attraversa per arrivare alla conquista dell’io sono una delle avventure più interessanti da seguire nei suoi primi anni di vita. Come nasce l’identità del bambino? Quando inizia ad apparire? E come si sviluppa?

Un percorso a tappe: le prime avvisaglie

Nei primissimi mesi dopo la nascita, il neonato vive in uno stato di fusione con la mamma: la continuazione di quella dimensione di unità che caratterizzava la vita prenatale nel pancione. Come e quando emerge il senso della propria identità?

“Anzitutto, serve un breve chiarimento sul termine”, risponde Rosalinda Cassibba, professore ordinario di Psicologia dello Sviluppo e direttore del Dipartimento di Scienze della Formazione, Psicologia e Comunicazione dell’Università di Bari. “Per ‘identità’ s’intende la consapevolezza di essere diverso dagli altri: la capacità di avere un’immagine di sé. Per arrivare a questo, occorre un certo grado di maturità: sul piano della rappresentazione cognitiva, è un livello che non si raggiunge prima dei 18 mesi di vita. Già prima, però, è possibile intravvedere nel bambino alcuni piccoli segnali, comportamenti percepibili dai genitori nella vita quotidiana, che indicano il graduale formarsi di questo embrionale ‘senso di sé’”. Quali sono, allora, gli indizi rivelatori?

  • Verso i 3-4 mesi si può notare nel bimbo una certa attenzione preferenziale per il proprio volto. “Posto davanti a uno specchio, non possiamo dire che si riconosca, ma notiamo che fissa la propria immagine con un particolare interesse e con un’espressione positiva”, spiega l’esperta.
  • Intorno ai 6-8 mesi, con gradualità e parallelamente allo sviluppo dei primi movimenti e gesti, si instaura la fase del riferimento sociale. Di fronte a situazioni nuove, il bambino non sa come reagire, né quali emozioni provare: per esempio, se cade, deve avere paura o restare tranquillo? Lui non lo sa e, per saperlo, guarda la mamma o il papà. “Il piccolo utilizza il genitore come riferimento per avere un feedback e modulare sulla sua risposta le proprie emozioni e comportamenti”, chiarisce la psicologa. “Sono i primi momenti in cui il bimbo comincia a percepire l’altro come separato da sé: qualcuno che può dargli una risposta o fornirgli un modello”.

Dal riflesso nello specchio all’immagine di sé

Tra 12 e i 18 mesi il bimbo attraversa un periodo che viene chiamato la fase dello specchio: posto di fronte alla propria immagine, ora si riconosce davvero.

  • Un gioco divertente è disegnargli un puntino sul naso. “Prima di questa età, il bimbo che coglie questo particolare nella sua immagine riflessa, tocca lo specchio”, spiega Rosalinda Cassibba. “Ora, invece, si apre una nuova fase: istintivamente porterà la manina al naso, per verificare come mai qualcosa è cambiato. Lui ‘sa’ di non avere quella macchiolina e non capisce come mai la sua immagine riflessa, invece, ce l’abbia”.
  • Sempre davanti allo specchio, il bambino percepisce che, se si muove, anche l’immagine riflessa si sposta. E così ci fa capire che si riconosce! Poi, comincia a riconoscersi anche in immagini, come fotografie e video, che non hanno corrispondenza immediata con il momento presente, ma perdurano nel tempo.
  • Lo sviluppo motorio gioca, quindi, un ruolo di rilievo nell’acquisizione della consapevolezza di sé. Verso l’ottavo mese si manifesta anche il gesto dell’indicazione. “Il bimbo cerca con il movimento di attirare l’attenzione dell’altro verso qualcosa o qualcuno”, spiega l’esperta. “Quando, per esempio, guarda la mamma puntando il dito verso un aereo che passa, sta cercando di condividere la sua attenzione con quella di un altro: esprime una intenzionalità propria, che è diversa da quella della mamma. Ciò significa che in lui si sta formando una percezione della diversità dell’altro non soltanto a livello fisico, ma anche mentale”.

Prime parole: si apre un mondo di relazioni

La possibilità di verbalizzare ha un’importanza cruciale, è un immenso arricchimento della maturità e dell’espressione di sé. Il periodo tra i 12 e i 24 mesi è interessantissimo anche per questo. È adesso che il bambino comincia a parlare, e tra le sue prime parole ci sono ‘io’, ‘me’ e ‘mio’.

Un altro aspetto curioso è che, per parlare di sé, utilizza il proprio nome. “Per far capire che ha fame, per esempio, dirà ‘Checco pappa’, perché il suo linguaggio si modella su quello degli adulti, che per rivolgersi a lui o nominarlo dicono ‘Checco’. Ma è comunque evidente che a questo punto gli è chiara la differenza tra lui e gli altri”, dice Rosalinda Cassibba.

Per comprendere a fondo il percorso verso l’acquisizione del senso di sé, occorre tenere sempre presente che la conquista dell’io avviene all’interno dei rapporti che il bambino ha con il mondo che lo circonda: primi fra tutti, quelli con i genitori e la famiglia. “Soprattutto la mamma, ma anche il papà, fanno sentire il piccolo protetto: gli forniscono una base sicura”, continua l’esperta. “Per il bambino tutto è nuovo, e le novità spaventano: avere una protezione intorno a sé gli permette di avventurarsi nel mondo senza sentirsi in pericolo. È così che impara a esplorare, sperimentare, vagliare la realtà. Ed è così che apprende anche a conoscere le proprie caratteristiche.

Nel rapporto con i genitori, il piccolo si confronta anzitutto con le loro reazioni alle sue richieste o espressioni di vario tipo: recepisce da loro risposte, modelli e indicazioni. “Se la mamma, per esempio, utilizza spesso il gesto di indicare un oggetto, il bimbo lo acquisisce come strumento e, poi, lo utilizza a sua volta nell’interazione”, spiega la psicologa.

Dialoghi e conflitti, sempre “costruttivi”

Il confronto è un elemento importantissimo: avere un interlocutore che reagisce ai suoi comportamenti è per il bambino la prova di esistere come uno degli elementi della relazione.

Se piange e la mamma lo coccola, o gli offre quello che lui chiede, non solo vede soddisfatta una sua richiesta, ma percepisce di essere meritevole di risposta”, dice Rosalinda Cassibba. “Questo gli dà fiducia: fa sì che confidi nella propria possibilità di incidere sul mondo. Accresce in lui il senso di autostima e di autoefficacia, fondamentali per la formazione dell’immagine di sé”.

Il rischio, però, è che nelle dinamiche relazionali sorgano incomprensioni e conflitti. “Anche i contrasti rafforzano il senso della propria identità. A proposito della fase dei no tipica del secondo anno di vita, è proprio sperimentando la possibilità di restare nella relazione pur permettendosi di dire ‘no’ che si cresce in sicurezza, sviluppando serenamente la propria autonomia”, spiega l’esperta.

“Bisogna tener conto del fatto che il bambino a volte dice ‘no’ soprattutto per differenziarsi. Non tanto, dunque, per rifiutare qualcosa, ma proprio allo scopo di affermare la propria identità. A volte, poi, il ‘no’ può venire dalla mamma, ma andare incontro a piccole frustrazioni è altrettanto importante per la crescita e lo sviluppo dell’identità: aiuta il piccolo a capire che ci possono essere desideri diversi dai suoi”.

In questo senso, anche i rapporti con i fratelli sono molto importanti. “Le relazioni con loro, infatti, possono dare ulteriori stimoli”, conferma la psicologa. “Per esempio, un bambino può sperimentare che un suo comportamento, accolto dalla mamma o dal papà, viene invece contrastato da un fratello per mille motivi, che possono andare dalla gelosia alla competizione. Questo può stimolarlo a livello cognitivo, favorendo in lui lo sviluppo di strategie di relazione”.

Cervelli “connessi” da speciali cellule nervose

Negli ultimi anni, la scoperta dei neuroni specchio nell’ambito delle neuroscienze ha dato un impulso significativo alle conoscenze sulle relazioni umane, e dunque anche tra genitori e figli.

Queste speciali cellule nervose sembrano rappresentare la componente biologica dell’empatia, cioè della capacità di immedesimarsi nelle emozioni altrui. E non si attivano solo quando un soggetto esegue un’azione, ma anche quando assiste all’azione di un altro: come se fosse esattamente al posto dell’altro. I neuroni specchio, poi, “scendono in campo” anche quando vediamo un’altra persona accingersi a compiere un’azione o a provare un’emozione: una sorta di anticipazione delle intenzioni dell’altro. Questo “simulatore interno” è già attivo nei bambini molto piccoli e si sviluppa in relazione al tipo di accudimento offerto dai genitori e dagli adulti di riferimento.

“Tra tutti gli organi del nostro corpo, il cervello è l’unico che si può definire organo sociale. Nel bambino, alla nascita, molti organi devono ancora crescere, e per questo hanno bisogno di cibo: il cervello è l’unico che per svilupparsi, oltre a ricevere nutrimento, deve connettersi con altri cervelli. È come dire che noi esseri umani siamo programmati per connetterci l’uno con l’altro”, spiega Rosanna Schiralli psicologa e psicoterapeuta.

“Dalla nascita, dunque, il modo in cui il cervello si sviluppa e la qualità del suo funzionamento dipendono direttamente dalla relazione che mamma e papà, e poi gli altri, stabiliscono con il bambino. Noi adulti siamo potenzialmente gli architetti del suo cervello. E oggi, grazie alla risonanza magnetica e alle indagini di ricerca, siamo sempre più in grado di stabilire il modo migliore per interagire in questo interessantissimo processo”.

Io sento che tu senti… come mi sento!

“La costruzione dell’identità è la risultante di un incontro: quello tra l’offerta di accudimento dei genitori, in primis la mamma, e la richiesta di attaccamento del bambino. “L’identità si costruisce proprio nella relazione, dunque in questa connessione tra cervelli, attraverso una serie di scambi affettivi ed emotivi che sono le prime cariche di sicurezza e protezione per il piccolo”, spiega Rosanna Schiralli. “Immaginando di verbalizzare questi scambi tra mamma e bambino, ciò che potrebbe dire il piccolo è una frase del tipo: ‘io sento che tu, mamma, senti ciò che io sto sentendo’.

Si tratta di un circuito interaffettivo che si svolge in migliaia, milioni di microrelazioni affettive nel corso dei primi anni di vita, all’interno del quale si stabilisce un gioco di specchi tra mamma e bambino che è proprio all’origine della formazione del senso di sé nel piccolo. E le nuove scoperte delle neuroscienze possono esserci di grande aiuto, indicando i modi migliori in cui può avvenire questo rispecchiamento”.

Buone azioni di… rispecchiamento

Quando il bimbo è piccolissimo, capita che pianga per diversi motivi: non avendo ancora sviluppato una risposta specializzata, piange allo stesso modo per cause banali o importanti. Per esempio, se gli arriva una mosca sul visino può urlare disperato! “Spesso la mamma reagisce attaccandolo al seno, pensando che abbia fame. Ma non è detto che questa sia la risposta adeguata: perché se il suo ‘fastidio’ viene decodificato come ‘fame’, il bambino non si sente capito”, dice Schiralli. “La mamma potrebbe invece regalare al piccolo un attimo in cui lasciarlo piangere, facendogli un buffetto per fargli sentire che lei è lì e lo ascolta. E aspettare di capire cosa non va, per intervenire poi nel modo adeguato. Così, si sintonizza con il bebè: gli offre un vero rispecchiamento di ciò che lui sta sentendo, conferendogli valore”.

Un’altra situazione tipica: il bimbo gioca sul tappeto mentre la mamma e il papà, nella stessa stanza, leggono o fanno altro. Il bimbo mette per caso tre cubi impilati, guarda la mamma, o il papà, e sorride. La reazione che spesso i genitori hanno è verbale: ‘Che bravo! Magari da grande farai l’ingegnere!’. “Naturalmente il piccolo non può capire le parole, ma attraverso la voce, lo sguardo, l’atteggiamento dei genitori riceve un messaggio fondamentale. Se potesse verbalizzarlo, direbbe: ‘Io ho capito che quello che sto provando per un’esperienza casuale, e che un giorno riuscirò a chiamare gioia, è esattamente l’emozione che si deve provare in un’esperienza di questo genere’. Questa è l’importanza del rispecchiamento: convalidare le sensazioni del bambino, confermargli che quello che sta provando è ciò che si deve provare”.

Conquista dell’io: come avviene nei gemelli?

Servono particolari attenzioni da parte dei genitori nel seguire la formazione del senso di identità di due gemellini?

“Quando una mamma ha un solo bambino, si dice che ‘ha occhi solo per lui’. Nel caso dei gemelli, invece, si deve ‘dividere in due’: ognuno deve fare i conti con l’altra presenza”, dice Rosanna Schiralli. “Per prevenire alcuni disagi nei bambini, c’è chi ritiene che si dovrebbe, fin dalla gravidanza, aiutare la futura mamma a pensare i due figli come due individui separati e specifici. E prepararla a ritagliarsi anche solo uno spicchio di spazio giornaliero che sia ‘unico’: da dedicare totalmente a ogni singolo bambino. È in questa dimensione che può crearsi un attaccamento sicuro, dunque una buona sintonizzazione e una relazione di rispecchiamento profonda e proficua”.

L’equazione somiglianza-uguaglianza è un pregiudizio che può condizionare la conquista dell’io”, conferma Rosalinda Cassibba. “Spesso, per i gemelli, il rischio è quello di essere confusi uno con l’altro, fatto che può rallentare il processo di differenziazione di sé dagli altri. Occorre perciò rispettare il loro bisogno di essere riconosciuti ognuno come ‘uno’, e non in relazione al fratello. Proprio per evitare scambi e confusioni, molti psicologi consigliano di diversificare fin dai primi tempi abbigliamento, giocattoli e, più avanti, le classi scolastiche. D’altra parte, va anche detto che avere un ‘pari’ sempre accanto può rivelarsi vantaggioso. Avere un ‘compagno di strada’ con la stessa età, lo stesso linguaggio, le stesse emozioni può rinforzare la sicurezza nel bambino”.

Dall’identità all’autonomia

Il senso di sé si costruisce grazie all’interiorizzazione nel tempo di una serie di feedback che provengono dagli adulti che accudiscono. E non dobbiamo preoccuparci né scoraggiarci se, a volte, ci sembra di sbagliare, perché il cervello ha un periodo evolutivo molto lungo. “Finisce di completarsi verso i 22 anni, quindi i genitori hanno tutto il tempo di rimediare in caso di danni involontari!”, rassicura Rosanna Schiralli.

“L’importante è che gli ‘incidenti di percorso’ accadano ogni tanto, ma non diventino uno stile. Se, per esempio, la mamma tende a spalancare gli occhi, come se si fosse spaventata, ogni volta che il piccolo fa qualcosa di nuovo, lui rischia di confondersi, interiorizzando il concetto che ogni novità comporta uno spavento. Occorre, invece, dotarlo di quella che io chiamo la ‘valigia della sicurezza’: una base di tranquillità e protezione, che gli permetta di proseguire ben saldo sulla strada dell’autonomia”.

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