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«E tu, adesso, come stai?», indagine sui ragazzi della pandemia: in attesa che la vita riprenda

di Silvia Nucini - foto di Stefano Schirato
da www.corriere.it
@Riproduzione Riservata del 20 agosto 2021

Lo hanno chiesto ai loro coetanei i giovani autori di «RadioImmaginaria». Le risposte, sincere, hanno portato a galla nuovi desideri assieme a nuove paure. Una generazione aspetta che la vita ricominci a scorrere.-

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Campus Alma Mater Studiorum di Cesena. Hind, 16 anni, viene intervistata da Noemi, 21 anni, di RadioImmaginaria (foto Stefano Schirato)

Papyrus è buffo e coraggioso, cucina pessimi spaghetti e qualche volta si sente solo. In Undertale , il video gioco di cui è protagonista, non uccide mai nessuno: grazia i nemici all’ultimo istante, protegge i deboli, salva vite. Anche le vite che i suoi sviluppatori non avevano previsto, come quella di Aurora, 14 anni: «È diventato il mio migliore amico e mi ha tirata fuori dalla tristezza. Se oggi, dopo questo anno bruttissimo, posso dire che sto bene è solo grazie a lui. Quando ho finito il gioco dovevo resettarlo. Ma quando resetti i personaggi si dimenticano di te, e io, allora non l’ho mai fatto», dice e allunga il cellulare. Incastrato nella cover trasparente c’è un foglio a quadretti su cui c’è disegnato Papyrus: uno scheletro con la sciarpa.

Riviera Romagnola, agosto 2021. Da una prospettiva poco ravvicinata il mondo, qui, è quello di sempre: il lungomare, le bici, i bagni, le piade, le nonne abbronzatissime che portano in spiaggia la tovaglia e le cotolettine, i bar con le tavolate di soli maschi, i bar con le tavolate di sole femmine. Soltanto le mascherine (sul viso, al polso, a ciondolare da una mano all’altra) sembrano segnare un tempo diverso. Davanti a questa scenografia tanto familiare e immobile da sembrare il fondale dell’Estate Italiana si muovono decine migliaia di ragazzi - qui per un giorno, una vacanza o per la vita - coi nasi scottati e cose da dire. Risposte a domande che nessuno, in questo anno e mezzo in cui tutto è saltato per aria, ha mai fatto la fatica di fargli. La più banale e complicata di tutte: come stai?

LENOR, 16 ANNI: «HO AVUTO PAURA DI NON USCIRE MAI PIÙ DALL’APATIA. LE COSE CHE AMAVO AVEVANO PERSO LUCENTEZZA»

Non è un caso che, di chiederlo ai loro coetanei, sia venuto in mente ai ragazzi di RadioImmaginaria (la radio- network europeo per gli undici-diciassettenni) e che intorno a questa domanda ci abbiano costruito un viaggio per tutta l’Emilia Romagna (l’assessorato alla scuola della Regione collabora al progetto): il tour si chiama OltrApe 2021 e prevede una trentina di tappe e altrettanti incontri per raccontarsi come va. Il tempo che intercorre tra la domanda e la risposta è già una risposta, e un sintomo di onestà: i ragazzi, quando gli chiedi come stanno, ci pensano davvero e non conoscono la formalità del «bene bene». Chi risponde «bene» prima ci mette sempre «adesso». «Adesso bene», dice Lenor, 16 anni che mi prega di scrivere che il suo nome significa «raggio di sole, in greco».

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La postazione di RadioImmaginaria a Rimini

Adesso è il tempo sospeso dell’estate, la speranza nei vaccini, la promessa degli adulti che la dad non tornerà più; un ponte tibetano tra un futuro incerto e un passato molto vicino, ma già da dimenticare. «Ho avuto paura di non uscire mai più dall’apatia in cui ero sprofondata, le cose che amavo non avevano più nessuna lucentezza: i miei libri, i miei fumetti stavano sulla libreria e io per mesi non ho avuto la voglia di allungare un braccio per prenderli. Qualcuno l’ha capito, mi ha ascoltata? Non lo so. Noi ragazzi siamo stati ascoltati sulle cose che gli altri volevano sentire. Ma, sa, ce ne sono molte altre che non si comprendono a tal punto che è impossibile anche solo ascoltarle». L’«adesso bene» di Maddalena è, come dice lei «un’esplosione di farfalle nello stomaco». Ha 14 anni, ieri sera è andata a un concerto di Mahmood, Noemi e Carl Brave e racconta che non ci poteva credere a tutta quella gente, quella musica, quell’allegria. «È come se facessi tutto per la prima volta, come se avessi aperto gli occhi da poco, o qualcuno avesse acceso la luce».

Nel buio di questi mesi, così fitto da non riuscire a vedere nulla, Maddalena ha guardato nell’unico posto possibile: «Dentro me stessa. Senza gli amici intorno, che anche se non vuoi ti condizionano, ho capito un po’ di più chi sono, e che cosa so fare. Non è stato sempre bello, né facile, ma è servito». Come è servita la convivenza forzata e prolungata con la famiglia che ora ricorda come la cosa più bella di tutta la pandemia: «Insieme abbiamo vissuto cose indimenticabili». Lo stesso è stato per Riccardo, 14 anni e per Federica, 16 anni che raccontano, in luoghi e momenti diversi, ma con lo stesso misto di sorpresa e sollievo, la scoperta di madri, padri, fratelli. «Ci siamo avvicinati tanto, conosciuti meglio», dice lui. «Era da molto tempo che cercavo un rapporto con i miei genitori», ammette Federica. «Prima era tutto e solo un litigare per la camera in disordine. Nei mesi in cui siamo stati chiusi in casa abbiamo cominciato a parlare d’altro, forse per la prima volta. Credo che quello che è nato tra di noi non cambierà, anche se la vita tornerà quella di sempre».

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Giulia, 17 anni, di Rimini

Anche a Sassa, 21 anni, la pandemia ha regalato un rapporto migliore con sua madre, costruito, pur nella costrizione del lockdown, con il rispetto dei propri spazi. «Ho passato moltissime ore in garage, sola dentro l’auto di mia mamma. Ci studiavo, mettevo la musica altissima e immaginavo di essere in discoteca, ci facevo anche le sedute con la psicologa». È stato in macchina che ha deciso che, invece di iscriversi subito all’università, si sarebbe presa un anno per lavorare e capire che cosa volesse fare davvero. Lei, e non tutti gli altri. Adesso lavora a RadioImmaginaria, a settembre si iscriverà a Scienze della Comunicazione e quando si arrabbia tutti le chiedono se vuole salire su qualche auto.

L’esperienza che più di ogni altra ha connotato i mesi passati e ha lasciato strascichi emotivi in quelli presenti è stata, per tutti, la scuola. Chi ha iniziato le superiori in dad si è sentito solo e sradicato: «Non sono mai riuscito a conoscere e uscire coi miei compagni di scuola», dice Carlo, 15 anni, tra il primo e il secondo anno di Liceo Scientifico. «E anche adesso che potremmo fare delle cose insieme, non so da che parte cominciare. Ci provo a socializzare, ma è diventato difficile con tutti. So che devo mettere il piede fuori dalla gabbia, se lo faccio poi riuscirò a camminare, ma il primo passo è sempre il più difficile». Lucia, 14 anni, ha vissuto la stessa situazione e dice che ha ricominciato a stare bene da pochissimo, da quando con 4 o 5 compagne di classe si sono dette: va bene, non ci conosciamo, ma proviamo a uscire lo stesso.

DANIELE, 12 ANNI: «QUANDO LA GENTE SI È ABBRACCIATA AGLI EUROPEI HO CAPITO CHE IL BRUTTO ERA FINITO»
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Lisa, 15 anni, di Rimini, frequenta il Liceo Linguistico

Giulia invece un gruppo ce l’aveva, ma si sono persi un po’: «Io per non rischiare di fare ammalare i miei nonni, quest’anno ho visto solo Pietro, il mio ragazzo. Loro invece hanno continuato a uscire tutti insieme, anche se non si andava a scuola. Così, a un certo punto, io mi sono sentita estranea. Adesso stiamo ricominciando a vederci, spero che funzioni». A Daniele, 12 anni, quello che è rimasto addosso dell’anno scolastico - una sensazione amara che non se ne va - è che ai professori non importi nulla dei ragazzi. «Io avevo sempre problemi di connessione, per questo ho saltato tante verifiche. Ma nessuno si preoccupava, si sono solo accaniti quando siamo tornati in classe. Ho pianto tanto al telefono coi miei amici, ma anche da solo, quasi ogni sera prima di dormire. Ho sentito che tutto il brutto era finito solo quando l’Italia ha vinto gli Europei e la gente urlava e si abbracciava davvero, senza gli schermi di mezzo».

Lisa, anche se non lo usa, tiene sempre in mano il cellulare, e ha l’istinto di guardarlo ogni secondo. Racconta che è un vizio che le è venuto quest’anno, quando ha passato anche 12 ore al giorno connessa a qualcosa o qualcuno. «Ho così disimparato che esistono i contatti umani che ieri sono andata a farmi le unghie e, quando l’estetista ha preso la mia mano fra le sue, d’istinto l’ho tirata via». Dice che sta per la maggior parte del tempo da sola e, anche se vive a Rimini, al mare non ci va mai. Inda, 16 anni, ha fatto il suo viaggio tra reale e virtuale e in tutte e due i mondi ha fatto fatica. «Il lockdown mi ha dato l’occasione di chiudere con una brutta compagnia, gente più grande per cui non ero mai abbastanza: mai abbastanza matta, mai abbastanza sbronza. In casa mi sono buttata sui social, ho scoperto Clubhouse, dove si era creata una vera comunità di gente sola e sconosciuta. Non dormivo più: parlavamo di niente, facevamo dei giochi scemi per tutta la notte. Uno era “bomba o passa”. Dovevi dire di ognuno se te lo scopavi o passavi scegliendo in base alla foto profilo. Lo so che è assurdo, ma tutte le volte che mi passavano ci rimanevo malissimo». Adesso, dice sicura, è tutto finito: le menate, i giudizi degli altri, le insicurezze. «Sto cercando di farmi dei nuovi amici, gente migliore di me. Le persone civili hanno rimesso la mia vita sui binari».

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Nelle lunghe ore di solitudine e social qualcosa è entrato nella testa di Lucrezia, 16 anni, e non se ne va più. Lei chiama quel qualcosa «la perfezione», e sente che governa il suo make up complesso, l’abbinamento di colori insolito e bellissimo di cui è vestita, l’insoddisfazione che monta ogni mattina quando apre gli occhi. «Per più di un anno ho passato tutto il mio tempo libero su Instagram a guardare foto di ragazze senza nessun difetto. Lo so che ci sono i filtri e photoshop, ma saperlo non serve a niente, perché ho iniziato lo stesso a non piacermi più e a pensare alla chirurgia plastica: vorrei rifarmi il naso e anche il seno, perché è troppo piccolo». Ne parla ogni giorno coi suoi genitori, chiede che le autorizzino gli interventi. «Loro mi dicono che vado benissimo così. Lo pensavo anche io, prima. Vorrei crederci ancora, ma non ci riesco».

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Lucrezia, 16 anni, di Rimini

Quando chiedo a Chiara come sta, non dice nulla. «Non riesco a essere sincera», si scusa essendolo, invece, moltissimo. Sotto la sua ritrosia di carta velina c’è qualcosa che lei chiama tristezza, ma tristezza è solo il sintomo che le induce una cosa diversa: non sentire più niente. Le cose, racconta, con la pandemia hanno perso colori e sapori e anche quando questa cosa che chiamiamo normalità è tornata, lei è rimasta in un deserto. «I giorni passano, io mi impegno a fare, ma non provo niente. I miei hanno parlato di mandarmi dallo psicologo, io non ci voglio andare. Allora cercano di farmi stare sempre con qualcuno. Non so se serve». Dietro di lei, sulla linea esatta della sua prospettiva c’è ancora il cartellone della Notte Rosa ormai passata. Una ragazza guarda in macchina, lo slogan è: «Finalmente un sorriso». Finalmente, per Chiara, non è ancora arrivato. Ma poi anche lei dice una cosa che hanno detto tutti: che ora niente è più scontato. Un gelato, una pizza, un giro in centro. Alle cose piccole di tutti i giorni adesso ci si fa caso. E forse la strada per tornare ad amare la vita, ed esserne riamati, è proprio riuscire a vederla scorrere in ogni cosa.

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