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Sanità. Così la Terapia intensiva diventa più umana

di Antonella Mariani

Far spazio ai parenti nel reparto più delicato e tecnologico giova anche ai pazienti. Verso una nuova proposta di legge. L’esperienza dell’Humanitas di Bergamo.-

Porte aperte alle visite almeno 12 ore al giorno, 24 se i ricoverati sono bambini. Comunicazione più stretta tra medici e familiari dei pazienti, fino a una «adeguata condivisione delle informazioni e una migliore partecipazione alle decisioni » di diagnosi e terapie, fine vita compreso. Sono 4 articoli, arrivati un anno fa in Commissione Affari sociali della Camera su proposta dell’allora presidente Mario Marazziti come «Disposizioni in materia di reparti di terapia intensiva aperta».

La proposta di legge circola in Senato già dal 2012, e c’è chi sta lavorando perché rientri in discussione nelle aule parlamentari. Non è una questione di trasparenza delle cure nel reparto più «estremo» e tecnologico di ogni ospedale, spesso organizzato come un bunker. Da anni la letteratura medica certifica che rendere più «umana» la terapia intensiva e garantire la presenza dei familiari non è una concessione ma una scelta utile: abbatte lo stress e l’ansia in pazienti e parenti, riduce il tempo di degenza, alleggerisce l’impegno dell’assistenza e prepara al rientro in casa.

Facile a dirsi, meno a farsi, se è vero che in Italia meno del 10% delle terapie intensive è «aperta», secondo le stime di Fabrizio Moggia, presidente di Aniarti, l’associazione che raggruppa 1.800 infermieri di «area critica» e che, insieme ad altre società scientifiche, ha attivato un ambizioso progetto di sensibilizzazione e formazione confluito nel sito web www.intensiva.it.

«Siamo indietro di 20 anni rispetto al Nord Europa – riprende Giovanni Mistraletti, ideatore e responsabile di Intensiva.it –. Tra i miei colleghi resiste una certa diffidenza, è diffusa l’idea che dai parenti ci si debba proteggere anziché cooperare. Ma è vero il contrario: i familiari del malato portano in terapia intensiva i suoi valori, la sua storia, le sue scelte, oltre a collaborare alle cure igieniche, all’alimentazione, alla riabilitazione precoce, alla terapia occupazionale. Ma sono ottimista: i vantaggi della terapia intensiva aperta sono così inequivocabili che indietro non si torna». Indietro non si torna è anche il motto dei (pochi) ospedali che hanno imboccato la strada: apripista sono il San Giovanni Bosco di Torino, il Gemelli di Roma e per i neonati il Niguarda di Milano.

Altri sono avanti, come l’Humanitas Gavazzeni di Bergamo, dove un gruppo di medici e infermieri dal 2015 lavora a un progetto di radicale «umanizzazione» della Terapia intensiva.

Le voci del cambiamento sono tante: si è partiti con la mobilizzazione precoce del paziente, per facilitare il suo ritorno a una vita normale e favorire il recupero fisico dopo interventi delicati, grazie alla presenza del fisioterapista nell’équipe medica. Il «pacchetto» si è ampliato dall’autunno 2017: ingresso facilitato e parenti al fianco del malato a tutte le ore. Un ritmo sonno-veglia il più equilibrato possibile, con tanta luce naturale e lampade alla notte per le terapie. Una dieta più gustosa, con piatti vicini ai desideri del paziente e anche il caffè, se le condizioni lo permettono. E ancora: sedie per i familiari, possibilità di usare telefono e tablet, colori tenui alle pareti, spazi e tempi idonei per le comunicazioni ai parenti. Il tutto accompagnato da un investimento importante in formazione per il personale e in tecnologia, dai letti ad alta performance alle poltrone per favorire la mobilità.

«Ora sogno di portare un cane in reparto e sperimentare la pet therapy» – scherza ma non troppo Giovanni Albano, primario di Anestesia e rianimazione dell’Humanitas Gavazzeni di Bergamo. Non scherza però quando documenta che la trasformazione, portata avanti in stretta collaborazione con il coordinatore degli infermieri della TI Mauro Zanchi «sta avendo un impatto significativo sulla prognosi del malato». In altre parole, il tempo della degenza si accorcia. Ma serve anche un investimento in formazione degli operatori. Medici e infermieri si trovano a condividere l’area di lavoro con i parenti presenti accanto ai pazienti, in un ambiente delicato dove, in caso di emergenza, occorre agire con estrema rapidità. «Ma quando si osservano i vantaggi per il malato e la famiglia – conclude Maurizio Mazzoni, caposezione della Terapia intensiva del Gavazzeni - tutte le obiezioni svaniscono».

da www.avvenire.it

@Riproduzione Riservata del 12 luglio 2018

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